Robinson, 24 luglio 2021
Riscoprire Andrea Zanzotto
«Il lavoro della poesia si svolge nella terra di nessuno, fuori margine». Cent’anni dalla nascita di Andrea Zanzotto, uno dei nostri poeti più amati, sovente candidato al Nobel. Un autore dalla cultura oceanica, i suoi versi carichi di arcipelaghi di stratificazioni nascoste. A inizio giugno Pieve di Soligo, in provincia di Treviso, il suo borgo natale e Heimat universale, gli ha dedicato un festival. Pubblicato ovunque, venerato in Francia, padroneggiava diverse lingue, tanto da fare della traduzione di libri altrui un mestiere parallelo: lui preferiva professarsi un” botanico delle grammatiche”. Zanzotto è stato anche un saggista, e un critico letterario in servizio permanente effettivo. Arduo, al quadrato, inquadrarlo, se si prescinde dal rapporto dialettico che lo ha legato (per citarne solo alcuni) a Petrarca e Tasso, Dante e Leopardi, Hölderlin e T. S. Eliot, alla poesia ermetica e a quella simbolista. La psicanalisi e la filosofia, Heidegger, Lacan.” Capire Zanzotto": ci sono studiosi che hanno consacrato pezzi non esili della loro vita a questo seducente e travagliato scopo. Insinuarsi nel nucleo dell’ «oltranza informale, esorbitante e lacerante» dei suoi testi, per dirla con Gianfranco Contini. Compagni ( virtuali) del suo viaggio circospetto e fiammeggiante ai confini del linguaggio, sino a forgiarne uno completamente nuovo. Un pastiche di espressioni gergali locali, tecnicismi, allitterazioni, ossimori, neologismi, concatenazioni fonetiche,” mini- discorsi”, divertissement etimologici, “balbetti lucenti”, interiezioni e iterazioni, filastrocche, non-sense, termini latini, aulici o stranieri. Tutto scorre, e sfugge, nella sua opera. Un big bang mimetico dell’entropia del reale, non più delimitabile dalle mura di una pagina scritta. Oltre una determinata soglia, la parola non può più spingersi. «Resta quasi tutto là. Inaccessibile».
Zanzotto era nato il 10 ottobre del 1921. Maturità classica da privatista, si laureò in Lettere a Padova nel 1942. Durante la guerra partecipò alla Resistenza. Il suo primo libro nel 1951: una raccolta di poesie composte nel decennio precedente, Dietro il paesaggio. Quest’ultimo ha aleggiato costantemente sulla sua produzione, fosse quello veneto o la versione più mentale e metafisica della maturità. Seguirono, tra i tanti, IX Egloghe del 1962 e La beltà del 1968. Una pietra angolare del suo sperimentalismo: largo a un verseggiare anarchico, fuga dal metro canonico, dai dogmi delle arcadie e delle avanguardie. Scrisse Stefano Agosti: «Con La beltà il rapporto tra significante e significato si rompe. Il primo non è più collegato a un significato, o a molteplici significati possibili, ma si istituisce esso stesso come depositario e produttore di senso». Nel 1969 toccò al poemetto polifonico Gli sguardi, i fatti e Senhal, a ridosso dello sbarco sulla Luna. Nel 1976 Zanzotto collaborò al Casanova di Federico Fellini, che uscì lo stesso anno della sua silloge di liriche in dialetto venetoFilò: si sarebbero rivisti per i dialoghi e frazioni di sceneggiatura de La città delle donne ( 1980), e i cori de La nave va ( 1983). Nel 1978 fu la volta de Il galateo in bosco (premio Viareggio 1979), capitolo inaugurale di una trilogia che comprendeva pure Fosfeni (1983) e Idioma (1986). Nel 1996 la raccoltaMeteo: omettiamo il resto delle sue nutrite pubblicazioni, a parte l’ingresso nei Meridiani Mondadori, nel 1999, con Le poesie e prose scelte.
Le lauree honoris causa a Trento, Bologna, Torino. La morte, sopraggiunta il 18 ottobre del 2011 a pochi giorni dal compleanno dei novant’anni, «purulento di eternità, in quel laggiù». Dopo un principio d’oblio, complice il centenario, la nostra editoria torna a ricordare questo” alchimista della parola”, come lo definì Attilio Bertolucci. E così a fine anno dovrebbero vedere la luce, a cura di Francesco Carbognin e Simona D’Orazio, l’edizione di un’antologia di sue Poesie disperse e un Quaderno di traduzioni di cui si è occupato Giuseppe Sandrini.
” Polo infero” e” polo supero”, disciplina della terra e immensità, rêverie e bioritmi primordiali. La difesa della natura contro le degenerazioni della cultura di massa e della civiltà dei consumi, un po’ nel solco di Pasolini. «In questo progresso scorsoio/ non so se vengo ingoiato/ o se ingoio». Questione di prospettive che convergono. «Alla mia poesia, in ogni caso, non è mai mancata una certa narratività. Si possono anzi trovare spesso frammenti di vicende, come anche figure e personaggi, su diversi piani spaziali e temporali, che costituiscono un quadro non esiguo di riferimenti, una mappa abbastanza plausibile dei luoghi dove ho sempre vissuto». Andrea Zanzotto non si è mai allontanato, di fatto, dalla provincia: il suo cronotopo, il suo periscopio sulla commedia e tragedia umana. Ha viaggiato ben poco, specie per colpa dell’ipocondria e di qualche naufragio nell’oscuro interiore. «Io ho perduto la traccia/ sono andato troppo lontano, pur rimanendo qui». Si è mosso, però, tantissimo nelle profondità del pensiero, risalendo la corrente verso un idioma innocente e assoluto. Quello originario, ancestrale, spontaneo, dialettale: era il petèl, il parlato infantile e ludico dei bambini piccoli. Una maniera di liberarsi, definitivamente, dalle camicie di forza delle lingue ufficiali. Disse di lui Eugenio Montale: «Zanzotto è un poeta percussivo, ma non rumoroso: il suo metronomo è forse il batticuore». E Giuseppe Ungaretti: «Ecco il primo elogio che voglio fare a Zanzotto: egli è un poeta libero». Un intellettuale enorme, che ha cercato strenuamente fino all’ultimo «i fiori più o meno inquietanti, più o meno spinosi, dell’infinito proliferare dell’essere».