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 2021  luglio 23 Venerdì calendario

Maurizio de Giovanni si racconta

Maurizio de Giovanni, come sta?
«Così così. Attivo, forse anche frenetico ma sono ancora come sospeso. La perdita di mia madre, nell’autunno scorso, è stata un dolore inedito, potente. Forse perché maturo, chissà». 
Edda De Ruggiero, una donna minuta, all’apparenza fragile. 
«No, era forte. Sapeva ridere e piangere nello stesso istante. Per me è stata un ponte tra l’afasia e la scrittura. Sono diventato un narratore grazie a lei e sa perché? Quando ero un bambino mamma mi leggeva i libri facendo le voci. Per esempio, incupiva il tono pronunciando con enfasi frasi tipo “e poi arrivò un uomo enorme”. Ebbene, io riuscivo davvero a vedere un uomo enorme nella sua voce». 
Forse l’unico effetto speciale disponibile all’epoca. 
«Sì e io ho imparato a scrivere riascoltando dentro di me il nastro di quelle voci, cercando ogni volta di dare corpo a questo o a quel carattere. È come se questa sorta di apprendimento orale della scrittura avesse influito sul mio stile, sottolineando le sfumature più intimistiche, perché questo sono io: un narratore di crimini sentimentali». 
I lettori e le lettrici del «Corriere della Sera» troveranno i suoi libri di maggiore successo con il giornale. E dunque anche i suoi personaggi, dal commissario Ricciardi a Sara. Sono diversi, ma tutti accomunati da una grande umanità, privi di cinismo. 
«Appunto, io racconto storie che hanno una forte radice sentimentale. Poi queste possono sfociare in un delitto, in un perdono, in una dimenticanza. Ma conservano sempre un nucleo caldo, qualcosa che spinge chi legge a cercare di capire il perché sia avvenuto un fatto. Ci sono le persone, al centro. Non sono un narratore di freddi meccanismi. Che, per carità, spesso in letteratura possono funzionare bene». 
Per esempio, i romanzi il cui nucleo tematico è il puro ingranaggio della criminalità organizzata. 
«Io non sono così. Io devo allontanarmi e guardare i miei personaggi crescere, maturare, invecchiare più o meno bene. Il commissario Ricciardi è invecchiato facendosi sempre più evocativo, quasi color seppia. Sara, crescendo, ha perso del tutto la sua ingenuità». 
Anni fa al «Corriere della Sera» lei ha confessato: «Vorrei diventare un turista di me stesso», parlando del suo necessario distaccarsi dalle sue opere, dalla sua scrittura. Ci è riuscito? 
«Forse sì, di certo sono diventato un abile turista delle mie opere. Ho bisogno che i miei personaggi mi sorprendano. Per esempio, in uno dei romanzi della serie del commissario Ricciardi, In fondo al tuo cuore, c’è una persona che muore. Era prevedibile, perché non stava bene, perché non era più giovane. Ma io le assicuro che quando l’ho visto morire mi sono sorpreso, proprio come quando arriva la notizia di un parente che non ce l’ha fatta. Sono rimasto così colpito che quella novità mi ha fatto cambiare completamente la linea narrativa. Non ero più io a guidare il racconto, ma era il racconto stesso che prendeva una sua piega». 
Eppure i personaggi sembrano incastrati in un movimento di orologio. 
«Ma non è così. Vivere e scrivere a Napoli vuol dire anche accettare questa imprevedibilità delle cose. A Napoli è la città che comanda, è la città che ti guida. Con le sue regole, con il suo azzurro, con la sua vita propria. E noi assorbiamo la città, la sua natura. Ricciardi sente le voci degli spettri e io continuo a sentire le voci con cui mia madre accompagnava la lettura. Ma non sono fantasmi, no. Sono presenze-assenze a cui noi sappiamo dare un peso e che sanno guidarci. È il nostro “come si fa”». 
C’è un modo di dire napoletano che suona più o meno così: «Si’ viv’, si’ muort’». «Sei vivo, sei morto», con la virgola, senza nessuna particella disgiuntiva. Lo conosce? 
«Non solo. Il valore di questa affermazione sta proprio nell’assenza di oppure. Si può scegliere di essere vivi o morti, ma l’essere vivi e morti è un’altra cosa. Il punto è che a Napoli non sai mai se sei vivo o se sei morto: non te ne accorgi perché qua vivi e morti stanno sempre assieme, discutono, si amano, si odiano». 
Una volta, sempre parlando con il «Corriere», lei ha definito Napoli «una cipolla». 
«Stratificazioni. Prenda il vecchio Palazzo di Giustizia, per esempio. C’è chi giura di sentire ancora oggi le voci dei fantasmi. Ma sono le voci e i moniti della memoria, che sopravvive in una città dove non si rade al suolo nulla, ma si costruisce sopra, conservando quello che c’è sotto. Nell’edilizia come nella vita». 
Di tutti i suoi romanzi, qual è stato quello più doloroso da scrivere? 
«Ce ne sono stati tre. Due sono della serie dei “Bastardi di Pizzofalcone”, Buio e Il metodo del coccodrillo, e uno è della serie del commissario Ricciardi, I l giorno dei morti. Sono libri accomunati dalla morte di bambini. Non si uccide un bambino per quello che ha fatto o per quello che potrebbe fare, ma lo si uccide perché esiste e questo è senza redenzione. Non c’è scampo in questa situazione: ecco perché mentre li scrivevo mi sentivo oppresso da qualcosa di più grande di me, mi sentivo senza speranza. Questi sono tra i miei libri più sottili, più smilzi: avevo fretta di finire». 
Mina Settembre invece è un’altra cosa. Peraltro l’ultimo romanzo della serie, «Una sirena a settembre», è uscito da poco. 
«Mina vira alla commedia, Mina è intelligente e allegra, è il mio lato più morbido». 
Perché nata da una delle voci più solari tra quelle che le ha inoculato sua madre? 
«Forse sì. Io qualche volta non reggo il dolore. Pensi che il paese dove viveva mia madre mi ha conferito la cittadinanza onoraria. Sono andato perché per me era un piacere e anche un dovere. Ma non sono riuscito a passare nella casa dove viveva mamma. Ci sono dei dolori capaci di travolgerci, questo è stato più violento di quello che ho affrontato quando ho perso mio padre. All’epoca ero più giovane, forse mi credevo impermeabile alla sofferenza». 
E suo padre com’era? 
«Assomigliava a Ricciardi: gentile, un poco malinconico, molto delicato. Mi ha insegnato a non trattenere le lacrime e le risate. Ridi e piangi quanto vuoi, mi diceva. Può sembrare un insegnamento banale ma non lo è: anche nella scrittura io non mi vergogno di tratteggiare le emozioni. Molti sanno che io non ho scritto un rigo fino all’età di quarantotto anni. Quello che ho fatto dopo è stato un dispiegare ali che possedevo già, parole che mi abitavano, cose che erano già dentro di me». 
Lei è napoletano, fieramente meridionale, eppure ha numerosi lettori del Nord, oltre che lettori al di là dei confini italiani. Che cosa piace del suo essere del Sud? 
«Il fatto che sia una scelta e non una condizione ereditata, subita. Io ho scelto di stare a Napoli nonostante in tanti – anche per ragioni televisive legate ai miei personaggi – mi abbiano suggerito di trasferirmi a Roma. Sono convinto che se me ne andassi il mio modo di scrivere cambierebbe, perché è Napoli che nutre i miei romanzi, anche quando non sembra. E poi io ho scelto questa vita senza privacy, questo condividere tutto con tutti». 
I famosi fili dei panni stesi che legano le case le une alle altre? 
«Non sono un elemento pittoresco, sono un legame concreto. Le case del centro storico sono così vicine che è impensabile condurre una vita privata. Se mi succede qualcosa, io accetto che il mio dirimpettaio lo sappia. Siamo una tribù variegata e nello stesso condominio possono abitare il marchese decaduto, l’imprenditore digitale e la persona con il lavoro più umile e peggio pagato. Io ho bisogno di appartenere a questa tribù». 
Il fotografo Mimmo Jodice, parlando di Napoli, una volta ha sottolineato il suo misto di ingenuità e furbizia. Come se i due volti arrivassero a fondersi in uno solo. 
«Le mie storie nascono anche da queste maschere. Ricciardi ha perso l’ingenuità e il suo mondo è dignitoso e miserabile. Mina ha qualcosa di chiassoso. Sara non è ingenua, anzi, vive in un mondo feroce. Nella saga dei “Bastardi” l’ingenuità è scomparsa da tempo. Eppure, appunto, i miei personaggi non sono cinici». 
Attualmente sono in corso tre serie televisive tratte dai suoi romanzi: «Il commissario Ricciardi», «Mina Settembre» e «I Bastardi di Pizzofalcone». Ci sono altre quattro serie in preparazione. I suoi personaggi riescono a sorprenderla anche dalla televisione? 
«Soprattutto quando li guardo in televisione. Perché un film è la voce del regista, dell’autore, dell’attore, del costumista e così via. Sarebbe grave se non mi sorprendessero. Mi fa comunque bene pensare che queste figure esistono e che aspettano solo che io rimineralizzi loro il terreno». 
Come un maggese? 
«Esattamente, come un maggese. Non tanto cambiare personaggio, quanto rimettere a nuovo il terreno». 
Molti conoscono il suo metodo di lavoro: lei si chiude in casa per il tempo necessario a scrivere, lavora di getto. La sua è una scrittura felice? 
«Lo è ed è per questo che quando qualcuno viene da me e mi confessa che leggermi gli ha fatto venire voglia di scrivere, io sono felice». 
Al contrario di molti suoi colleghi. 
«Ma che cosa c’è di più gratificante di far venire voglia di raccontare? È una questione di diaframmi. Più sei libero, spontaneo, poco costruito e più risulti autentico. Io ho esordito tardi perché convinto che scrivere richiedesse anni di studio e limature e poi una grande fatica nel proporsi. Poi ho cominciato a raccontare. A guardarmi intorno e a raccontare gli uomini e le donne di Napoli, le sue miserie e le sue grandezze, le serenate che non si cantano ma si portano, perché sono un messaggio. E poi i morti, i vivi, i vivi che stanno con i morti. Da allora non mi sono più fermato». 
La amano in tanti anche per questo? 
«Una volta ero all’edicola, stavo comprando i giornali. Una signora mi ferma e mi fa: “Eccolo lo scrittore, che legge invece di scrivere e noi stiamo qua e aspettiamo invano i libri”. Ebbene, sa che cosa le dico? Più di tutto, io amo questo rapporto con chi mi legge».