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 2021  luglio 23 Venerdì calendario

La Terra sta morendo, punire gli irresponsabili

Questa del G20 di Napoli è anche, negli Stati Uniti, la settimana delle infrastrutture, ma soprattutto è la settimana delle tasse sul carbonio: la proposta dei democratici, al momento generica e senza specifiche, è di tassare i prodotti d’importazione da quei paesi che non prendono provvedimenti sufficienti a limitare le emissioni di gas serra. Lo stesso giorno, l’Unione europea ha esposto in maniera assai più dettagliata i suoi piani per imporre un meccanismo di «adeguamento del carbonio alle frontiere» – che temo tutti finiranno per chiamare tassa sul carbonio, anche se Cbam (carbon border adjustment mechanism) è un ottimo acronimo (in inglese suonerebbe: «Visto? Bam! » ).

Che opinione dobbiamo farci di queste tasse? So per esperienza che qualche voce si leverà per denunciarle come una nuova forma di protezionismo e/o per definirle illegali secondo il diritto commerciale internazionale. Sono voci che bisognerebbe ignorare.
Prima di tutto, stabiliamo le priorità. È vero, il protezionismo ha dei costi, ma spesso se ne esagera la portata, e in ogni caso sono insignificanti di fronte a un cambiamento climatico fuori controllo. Il Pacifico nordoccidentale cuoce ormai sopra i 38 gradi (! ), e vogliamo preoccuparci dell’interpretazione dell’Articolo III dell’Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio? Qualche forma di sanzione internazionale contro le nazioni che non prendono provvedimenti per limitare le emissioni è indispensabile se vogliamo fermare davvero una minaccia ambientale che sta mettendo in pericolo la nostra stessa esistenza. I paesi in via di sviluppo, in particolare la Cina ma non solo, sono già responsabili della maggior parte delle emissioni di anidride carbonica; se queste nazioni non partecipano, il grande sforzo congiunto di Stati Uniti ed Europa non servirà a molto.
«Le industrie si trasferiranno in Cina» è un altro argomento preferito di chi si oppone dall’interno alle azioni per il clima, e la risposta a questa obiezione determinerà le politiche normative sul tema. Alla luce di queste considerazioni, sembra quasi scontato specificare che le tasse sul carbonio non hanno nulla a che vedere con il protezionismo, e sono legali secondo il diritto commerciale internazionale. Tuttavia credo valga la pena sottolinearlo, se non altro perché è un argomento su cui ho riflettuto e lavorato per molti anni.
Per comprendere gli aspetti legali ed economici delle tasse sul carbonio, può essere d’aiuto considerare l’economia e la legge delle imposte sul valore aggiunto (Iva), una delle principali fonti di introiti in molti paesi (ma non negli Stati Uniti). Il confronto è estremamente utile. Sulla carta, l’Iva è una tassa pagata dai produttori: se uno stato impone l’Iva al 15%, un’azienda che produce una certa merce deve pagare una tassa pari al 15% delle sue vendite – meno le tasse che può dimostrare già pagate dalle compagnie che vendono le materie prime all’azienda. Il vantaggio di questo sistema è che il settore privato fa gran parte del lavoro "applicativo", nel senso che ciascuna azienda è incentivata ad assicurarsi che i propri fornitori paghino il dovuto.

Chi paga alla fine
Ma alla fine chi paga l’imposta? Di norma tutte le tasse sui produttori finiscono per trasformarsi in prezzi più alti dei prodotti, quindi un’Iva del 15% è, a tutti gli effetti, una tassa nazionale del 15% sulle vendite. All’Iva si accompagna sempre un "adeguamento alle frontiere": chi importa deve pagare una tassa sui beni importati, mentre chi esporta ottiene una riduzione pari alla tassa pagata su ciò che esporta. Tutto torna se si pensa all’Iva come a una tassa sulle vendite: nessuno vorrebbe una situazione in cui i clienti di un negozio pagano una tassa solo sui prodotti del proprio Stato, mentre quelli cinesi restano esenti. Né avrebbe senso addebitare una tassa sulle vendite ai prodotti del proprio Stato venduti in altri paesi. Questo è un punto ampiamente frainteso.
Le imprese statunitensi in particolare credono che gli adeguamenti alle frontiere imposti dagli stati con IVA rappresentino tariffe e sussidi alle esportazioni che danno un vantaggio sleale ai loro concorrenti. Ma si sbagliano dal punto di vista economico. E per l’Organizzazione mondiale del commercio questi adeguamenti legati all’Iva sono legali, perché servono ad attuare una politica interna che, almeno in teoria, non distorce i commerci internazionali. In altre parole, gli adeguamenti alle frontiere non fanno pendere la bilancia da una parte, anzi la riportano in equilibrio.
Che c’entra tutto questo con le tasse sul carbonio? Potremmo vedere le norme nazionali progettate per limitare le emissioni di gas serra come un modo per indurre i cittadini di uno Stato a tenere conto delle emissioni derivate dalla produzione dei beni che consumano. Ciò vale naturalmente se lo Stato impone una tassa sul carbonio o un sistema "cap-and-trade" (in cui le aziende devono acquistare delle licenze per poter inquinare). È vero anche, ma in un modo più difficile da misurare, quando gli Stati impongono regolamenti su chilometraggi o su standard di energia pulita. Il punto è che potremmo considerare molte norme sul cambiamento climatico come una forma di tassazione sui consumatori nazionali. E, secondo quanto avviene con l’Iva, gli adeguamenti alle frontiere (in questo caso le tasse sul carbonio) sono mezzi adatti a una strategia climatica dal punto di vista economico e, credo, legale (non me ne occupo direttamente, ma credo di comprendere questo aspetto).

Politiche nazionali
In altri termini, se una nazione non ha un’adeguata politica climatica, il prezzo dei beni importati da quella nazione dovrebbe riflettere una stima dei gas serra emessi per produrli. A rendere leggermente più complicate le tasse sul carbonio rispetto agli adeguamenti alle frontiere è la probabilità che una parte importante delle politiche climatiche si traduca in normative e non soltanto in tasse. In questo caso, una tassa sul carbonio resta comunque giustificabile per livellare il campo tra produttori nazionali ed esteri, ma stabilire il livello adatto per le tariffe non sarà altrettanto semplice come far pagare la stessa aliquota Iva su tutti prodotti nazionali e importati.
Servirà un certo grado di accertamenti e imputazioni, e sicuramente si discuterà sulle cifre. Ma questa complicazione non è una ragione sufficiente per non fare nulla: è chiaro che gli adeguamenti del carbonio alle frontiere sono la cosa giusta da fare, ed è meglio applicarli in modo imperfetto che non applicarli affatto.
Quindi due urrà per le tasse sul carbonio! Ma perché solo due? Il motivo è questo: le tasse sul carbonio hanno effetto solo sui beni esportati, e quindi sono una soluzione soltanto parziale al problema di quegli Stati che non fanno la loro parte per ridurre le emissioni di gas serra.
Considerate il caso della Cina, che dichiara di avere un piano per ridurre le emissioni ma continua a costruire centrali elettriche a carbone. Se i paesi avanzati imponessero tasse sul carbonio, la Cina sarebbe incentivata a ridurre l’anidride carbonica emessa per produrre l’acciaio che poi esporta. Ma non ci sarebbe nessuna penalità per le emissioni prodotte dalle sue centrali che riforniscono di energia elettrica le sue stesse città. E quelle emissioni, non legate ai commerci internazionali, rappresentano quasi certamente una minaccia ambientale maggiore delle emissioni associate ai prodotti d’esportazione. Insomma, per ottenere davvero una cooperazione internazionale non basteranno le tasse sul carbonio. Dovremmo minacciare sanzioni contro gli Stati che si comportano in maniera irresponsabile. E questo, temo, sarebbe illegale secondo il diritto commerciale internazionale, perché significherebbe intervenire su norme che per tradizione sono considerate puramente nazionali. Ora, vista la minaccia del cambiamento climatico, la nostra risposta dovrebbe essere rivedere o ignorare il diritto commerciale. Ma questo sarà un grande passo, e non avverrà nell’immediato. Per ora, le tasse sul carbonio sono tutto ciò che possiamo ragionevolmente attenderci. E andrebbero applicate il prima possibile.