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 2021  luglio 22 Giovedì calendario

Storia di Björn Andrésen

Comincia come un horror, tra i muri di una casa buia e piena di dolore, la storia del ragazzo più bello del mondo, Björn Andrésen, che a quindici anni – nel 1970 – divenne celebre in tutto il mondo come Tadzio, il protagonista del film Morte a Venezia dell’allora 64enne Luchino Visconti. Girato dai registi svedesi Kristina Lindström e Kristian Petri, presentato in anteprima alla scorsa Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro e in sala dal 6 settembre, The Most Beautiful Boy in the World è lo spietato documentario che racconta il dietro le quinte della fama e il prezzo della popolarità che travolse il giovane attore, gestito dall’ambizione della nonna e sfruttato – questo il tema del film – da un regista che lo considerava, e lo trattava, come un oggetto senza personalità (al Festival di Cannes – raccontano le immagini di repertorio – Visconti arrivò a parlare di lui in terza persona, pur avendolo accanto, alludendo alla bellezza che sarebbe «sfiorita» con l’età).
AMBIGUITÀ
Un film che non si tira indietro nel raccontare le ambiguità di Visconti, «un comunista con la servitù», ossessionato per quattro anni dalla ricerca della bellezza assoluta, mostrato dalle immagini d’archivio a Stoccolma («Difficilissimo recuperarle: un’impresa») mentre chiede a Björn, per la prima volta davanti alla macchina da presa, e chiaramente a disagio, di restare in mutande durante i provini. Ma le ombre sulla condotta del regista si infittiscono ancora di più quando, dopo la presentazione del film a Cannes, Björn ricorda nel documentario di esser stato portato da Visconti «in un club per soli uomini», e di avere «bevuto molto alcool per l’imbarazzo» fino a «non ricordare più niente».
Un passaggio molto duro, che coinvolge un minorenne, del quale i registi non vogliono offrire ulteriori letture: «Non sappiamo se sia successo qualcosa tra Visconti e il ragazzo. Naturalmente prima di girare il documentario lo abbiamo chiesto a Björn. La risposta che è disposto a dare è quella che sentite nel film».
Oggi 66enne, capelli lunghi e aspetto consumato dalla vita, una figlia con cui ha da poco recuperato il rapporto, un figlio morto piccolissimo e una vaga carriera nella musica (ma è anche in un cameo nell’horror cult Midsommar) Björn ammette di essere stato «rovinato» dal film di Visconti: terminate le riprese la sua immagine restò per tre anni di proprietà del regista, il suo volto angelico al centro dell’attenzione ossessiva dei media, e la sua difficile storia familiare – orfano di madre, scomparsa e poi suicida – non lo aiutò a mantenere la lucidità necessaria per gestire il successo.
UN OGGETTO
«Nessuno mostrò empatia o compassione per lui – raccontano i registi – è stato sempre trattato come fosse una cosa, spostato come un pacco, mai considerato come una persona con dei sentimenti». Amato in Europa per il suo fascino da angelo della morte e popolare anche in America, Björn fu venerato come una divinità in Giappone, dove gli impresari lo sfruttarono come modello, cantante, attore e persino volto di un noto manga, Le rose di Versailles di Riyoko Ikeda (meglio noto da noi come Lady Oscar), spingendolo nell’abisso delle dipendenze e di un autolesionismo durato fino all’età adulta. Per realizzare il film, i due registi hanno seguito per due anni l’attore, «volevamo fare l’opposto di Visconti, girare il film con lui e non su di lui. Un film gli aveva già distrutto la vota. Non volevamo ripetere l’errore».