Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  luglio 22 Giovedì calendario

Bene, mai stato così male

Ammalato di troppi specchi, di troppo whisky e navigando sempre controcorrente, approdò a Venezia. Era l’anno 1989. Sontuoso ufficio di presidenza della Biennale. Nel silenzio Carmelo Bene, 52 anni, parlò: “Sono l’equivoco. Il disguido. Sono il capolavoro senza prezzo”. Davanti all’attonito consiglio di amministrazione, si apprestava alla sua migliore interpretazione di sempre. Inspirò l’aria, roteò gli occhi bistrati da spettro elisabettiano, disse: “La vita non è comprensibile, perché dovrebbe esserlo il mio Teatro?”. Masticò la pausa, deglutì l’incanto, galleggiò nel silenzio dove battevano i cuoricini dei consiglieri e del presidente Paolo Portoghesi, che avevano tutti vite standard imbottite di bambagia, carriere da pettinare, e un certo languorino per le seppie coi piselli che li attendevano, in conto spese, al tavolo dell’Harry’s Bar. Stregati dalla voce del Maestro e dalla stellare idiozia della proposta, intravidero per una volta il vuoto. Ci cascarono dentro: persero la testa all’unanimità.
Dall’alto del suo Ego lui li guardava, mostrando il canino. Sul palcoscenico era stato Ubu Re, Amleto, Otello, Macbeth. Ora era Carmelo Bene da Campi Salentina, Lecce, “il qui presente assente”, che incoronato dall’applauso dei piccoli burocrati era appena stato nominato direttore della Sezione Teatro della Biennale, con un tesoro di spiccioli pubblici a sua disposizione, 2,5 miliardi di lire mal contate da spendere, anzi da bruciare in pubblico, meglio ancora “senza pubblico”.
Perché questa era l’idea sua rapinosa. La trovata del Nulla con cui avrebbe riempito le pagine dei giornali, nutrito la tonteria dei critici, fomentato lo scandalo dei benpensanti. E cioè allestire, in laboratorio, due tragedie da trasformare in farsa contabile – Il Tamerlano di Marlowe e il Bafometto di Klossowski – con tutte le spese di produzione ben allineate: la regia, prima di tutto, gli attori, i costumi, le scene, le prove, ma rigorosamente senza mai il debutto in pubblico, perché “da quando è per le plebi, l’arte è diventata decorativa”. E dove c’è teatro, “il mio Teatro”, non c’è spettacolo. Semmai rivelazione. Talmente segreta, talmente incomunicabile, da non aver bisogno di alcuna scena.
Un “Teatro depensato”, argomentò. Un teatro “detto per essere disdetto”. Un “divenire verso il Vuoto”. Che lui era capace come nessun altro di riempire di paradossi, polemiche, litigi, fanfaronate quasi sempre irresistibili, come preannunciava la sua notevole autobiografia: Sono apparso alla Madonna.
Mirabili inni al teatro di parola aveva interpretato fino a quel giorno. Il suo Dante letto in cima alla Torre degli Asinelli fu prossimo al capolavoro. Come lo fu il suo Quattro modi di morire in versi, dove Majakovskij, Esenin, Pasternak e Block risuonavano dentro la sua voce tra le fiamme della Rivoluzione in rovina. E ammirazione aveva suscitato il suo Pinocchio che “s’era rifiutato alla crescita”, bimbo per sempre ribelle, proprio come lui che sul palcoscenico lo reinventava.
Nato con le avanguardie, Carmelo crebbe mangiandosele a colazione. E facendo del suo teatro antiborghese, antiretorico, straniante, cantilenante, un unicum: imitato da tanti, ma inimitabile, col quale perseguiva “lo smarrimento delle genti” per “comunicare l’indicibile” che è del vivere “in questo Pianeta così poco attrezzato per la felicità”.
Detestava quasi tutto, spesso ricambiato: “L’equivoco italiota degli italiani”, la stampa dei gazzettieri, il canagliume dei critici e dei politici, le “mummie foruncolose degli studenti che nidificano nell’autoconservazione”, le donne “irreversibilmente depresse”, le “casalinghe transitate dal bordello domestico a quello televisivo”.
Fu quel giorno a Venezia l’inizio del suo declino. Nel quale da genio dell’alta prosa (“Ah la prosa! Quale orrore!”) Carmelo Bene decise, per dispetto di sé e amore del successo, di recitarsi in perpetuo nei panni dell’istrione nereggiante, meglio se televisivo. Lasciandosi inscatolare e poi liofilizzare nel Costanzo Show che per anni lo incoronò torero delle sue corride nichiliste, a uso e consumo delle plebi che il Maestro fintamente aborriva, guastando, negli anni a venire, la sua straordinaria ricerca teatrale, fino a degradarla in cliché. E ridurre il suo geniaccio in una variante estetica che andrà degradandosi fino alle trippe verbali dei Platinette e dei Vittorio Sgarbi.
La sua Biennale finì anzitempo, come doveva. Urla e scenate, prima dell’addio reciproco. E poi la miseria delle querele e controquerele. Con i disegni originali di Klossowski ideati per non andare in scena, spariti e poi ritrovati nella casa del Maestro a Otranto: “Sono miei, non vostri!”. Con un videotape, un libro e qualche appunto costati, in fin dei conti, 1,7 miliardi di lirette. E immaginiamo con le matte risate per il suo gioco di prestigio ben riuscito.
Da allora si ammalò di catastrofe, poiché “solo la catastrofe contiene la promessa del ritorno”. Ma tornò sempre più raramente. Visse coi suoi fantasmi e le tende abbuiate contro il giorno, nel suo appartamento nero dell’Aventino. Se ne andò anzitempo per cirrosi a 64 anni: “Meglio morir di vodka che di tedio”. Ma lasciandoci (per sempre e per fortuna) il diamante solitario che era stato.