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 2021  luglio 22 Giovedì calendario

I giorni alla Stampa di Indro Montanelli

Vent’anni fa, 22 luglio, il più famoso giornalista italiano uscì di scena con l’editoriale più breve della storia che l’indomani il Corriere pubblicò: «Giunto al termine della sua lunga e tormentata esistenza, Indro Montanelli, giornalista, prende congedo dai suoi lettori ringraziandoli dell’affetto e della fedeltà con cui lo hanno seguito. Le sue cremate ceneri siano raccolte in un’urna fissata alla base, ma non murata, sopra il loculo di sua madre Maddalena nella modesta cappella di Fucecchio. Non sono gradite né cerimonie religiose, né commemorazioni civili».
L’aveva ritratto Enzo Biagi sulla Stampa nel 1972: «Cominciamo dal nome: Indro. Glielo impone il padre, per far dispetto alla suocera e ai Santi del calendario. Sperano di vederlo diplomatico, e con una battuta disgusta intere categorie sociali. Nasce fervente monarchico, poi va a presentare La Malfa alla tv. Lo mandano a Budapest, e tra le barricate cade anche il suo anticomunismo da manifesti. C’è chi dice: "È un fascista", e ai tempi di Salò è condannato a morte. Se rivede le sue posizioni, lo accusano: "Voltagabbana". Se mantiene certe idee, attaccano: "Conservatore". Chi non lo conosce, può giudicarlo anche orgoglioso o insolente. È tra i pochi capaci di dire: "Ho sbagliato", o: "Chiedo scusa". È un uomo con pochi amici e molte malinconie». Ha nemici tuttora: un anno fa a Milano il suo monumento è stato imbrattato con le scritte «razzista», «stupratore» per la vicenda della sposa-bambina durante la campagna italo-abissina, chiarita da tempo.
Un marchio da edicola e da libreria. Autore di teatro con Il generale Della Rovere, interpretato da De Sica nel film di Rossellini, Montanelli s’è fatto narratore di Storia dei Greci, Storia di Roma, Dante e il suo secolo, scalatore di classifiche e di biblioteche scolastiche. Una firma che i lettori del Corriere di Piero Ottone, per «mancato rinnovo del contratto», stanno per regalare ai lettori della Stampa di Arrigo Levi.
Ottobre 1973. Stretto nell’impermeabile bianco, Indro s’affaccia nella stanza di Casalegno: «Ciao Carlo, ho firmato, me ne vo». Il vicedirettore scatta in piedi: «Andiamo a pranzo!». «Non ti disturbare, sono inappetente». Un po’ di schermaglie tosco-piemontesi e l’ospite accetta. Che con loro non ci sia il direttore lo convince di dovere l’«asilo politico» a Gianni Agnelli dal quale sarà a cena. In una lettera a Spadolini ammetterà che Levi gli offrì la collaborazione telefonandogli alle 15 dello stesso 17 ottobre in cui alle 9,30 Ottone in lacrime era andato a casa Montanelli per portargli la sentenza.
A 64 anni Indro entra alla Stampa, della quale era stato collaboratore nel 1938 con servizi dall’Islanda, dalla Danimarca, da Leningrado, dalla frontiera russo-estone dove aveva scoperto l’epurazione ordita da Stalin. Conquista ogni domenica la terza pagina con una rubrica «Controcorrente»: perché sia chiaro il suo diritto e quello del giornale d’essere di diverso parere. Scrive di Berlinguer, Fanfani, Ben Gurion, di mafie e scandali, di divorzio, dei malanni di Venezia, del Watergate.
Fine aprile ’74, Montanelli si congeda: «I casi della vita hanno voluto che, all’età in cui si usa passare nella riserva, io venissi richiamato in servizio permanente effettivo». Il 25 giugno esce Il Giornale nuovo. Con Indro sono Gianni Granzotto e, transfughi dal Corriere, Enzo Bettiza, Egisto Corradi, Carlo Laurenzi. Dalla Stampa lo seguono Guido Piovene, Nicola Abbagnano, il «Controrrente» ridotto a un bonsai e più tardi Giovanni Arpino. «Qualcuno considera eroica questa impresa, qualche altro pazzia».
Milano, 2 giugno ’77, ore 10, mentre va in redazione due Br gli scaricano addosso otto colpi di pistola, quattro lo colpiscono alle cosce. «Mi hanno sparato alle gambe, sono cose che succedono», le parole che riportano i primi soccorritori. Il giornalista che non voleva fare il direttore lo sarà per vent’anni. Merito anche di un signore che va a trovare il ferito alla clinica La Madonnina. È Berlusconi. «Non lo conoscevo. Si mise accanto a me, cominciò a piangere, provai a consolarlo: "Guardi che io non sono morto"». Parlano del Giornale e dei cinque o sei miliardi di debiti. L’imprenditore propone: «Diamoci del tu» e offre di acquistare la testata.
Montanelli lo racconta il 12 maggio ’97, l’ultimo incontro con il pubblico a Torino, Palazzo Nuovo. Tra centinaia di studenti e professori dell’Università, il prefetto, magistrati e giornalisti. Spiega perché la «discesa in campo» dell’editore nel ’94 lo indusse a lasciare Il Giornale. Spiega due storici no: all’Avvocato che gli proponeva la direzione del Corriere e al Presidente Cossiga che gli proponeva il Senato a vita. Spiega perché tentò l’impresa della Voce, il quotidiano durato un anno. Spiega perché una volta votò Ulivo e un’altra Polo. E quanto i giornali sbaglino nell’essere i megafoni della tv, nella ricerca dello scoop, «la scorciatoia dei somari», nelle redazioni dirette dagli uffici marketing e pubblicità. Nonostante tutto crede ancora nel mestiere bellissimo che cominciò allo Squillo della levatrice: «Ecco, avessi quarant’anni di meno, forse tenterei di nuovo».