La Stampa, 21 luglio 2021
Klaus Dibiasi ricorda le Olimpiadi del 1964
Tokyo per Klaus Dibiasi, 74 anni fra poco più di due mesi, è un luogo speciale. Aveva compiuto da pochi giorni 17 anni quando nella capitale giapponese conquistò l’argento olimpico dalla piattaforma, entrando per sempre negli annali dei tuffi. Furono i suoi primi Giochi, ai quali ne seguirono altri tre - Messico 1968, Monaco 1972 e Montreal 1976 -, coronati con altrettanti ori olimpici, sempre dai 10 metri. Uno dei più grandi tuffatori di tutti i tempi.
Dibiasi, come andarono quei Giochi di Tokyo 1964?
«Ero poco più di un ragazzino, alla mia prima Olimpiade. Venivo da Bolzano, da una realtà più piccola e molto diversa. Avevo vinto i Tricolori dai 10 metri e i Giochi del Mediterraneo a Napoli 1963, ma le Olimpiadi mi sembravano una cosa enorme, più grande di me».
Paura di sbagliare? Di non essere all’altezza?
«No, quello no. Anzi. Col mio compagno di Nazionale e amico Giorgio Cagnotto, di pochi mesi più vecchio di me, la presi come un’avventura, nella quale in fondo non avevo nulla da perdere. E così riuscii anche a fare anche un po’ il turista».
Turista alle Olimpiadi?
«Non sentivo la pressione dell’evento, non c’era lo stress di oggi. Mario Saini, allora segretario del Coni, disse a mio padre Carlo Dibiasi, azzurro ai Giochi di Berlino 1936 e mio allenatore, che ero nella Nazionale per Tokyo. Non mi sembrava vero e vissi ogni momento con passione e trasporto».
Cosa ricorda in particolare?
«Tutto. L’aereo, un Boeing enorme, fece scalo a Karachi in Pakistan e poi a Bombay in India. Arrivammo a Tokyo parecchi giorni prima delle gare e così io e Cagnotto cominciammo a girare la città, a fare shopping, lui comprò una macchina fotografica molto sofisticata per quei tempi, io una piccola cinepresa, cose che in Italia non c’erano. Poi visitammo Kyoto e i templi buddisti, senza pensare solo alle gare».
Com’era la realtà olimpica giapponese di 57 anni fa?
«Bellissima, funzionava tutto. Il villaggio olimpico era una vecchia caserma americana, con casette di due piani in un’area molto vasta nella quale si girava in bici. La prendevi e la lasciavi dove ti faceva comodo, un po’ come le city bike di oggi. Mi sentivo grande, libero. Ma la sorpresa più grande fu quando entrai in piscina».
Meravigliato o deluso?
«Estasiato. Gli impianti dello Yoyogi National Gymnasium erano stupendi, li aveva disegnati il famoso architetto giapponese Kenzo Tange, famoso anche in Italia. Io e Giorgio, che venivano dalle piscine di Bolzano e Torino, restammo a bocca aperta».
E la gara? Un argento conquistato o un oro perso?
«Entrambe le cose. Nel primo turno di tuffi i miei allenatori Horst Görlitz e Carlo Dibiasi misero gli esercizi più facili, per cui mi trovai subito indietro in classifica a causa dei bassi coefficienti. E i giornali scrissero subito che avevo deluso».
Ma poi si rifece...
«Dopo il secondo turno passai in testa, ma nel terzo giorno l’americano Bob Webster, nonostante un errore evidente, fu premiato oltre i suoi meriti dai giudici, visto che aveva vinto a Roma 1960 ed era il campione olimpico in carica. Così persi l’oro per appena 1,04 punti. Una piccola ingiustizia che però non guastò la mia gioia».
Ma i suoi allenatori non protestarono?
«No, non era il caso. E poi mio padre non avrebbe comunque potuto protestare perché in quella gara era iscritto... come atleta. Nel risultato finale infatti Carlo Dibiasi risulta l’ultimo della classifica: la Federnuoto italiana l’aveva iscritto alla gara dalla piattaforma solo per poterlo portare in qualche modo a Tokyo e tenerlo sempre vicino a me per darmi dei consigli. Ma mio padre in realtà in quella gara non effettuò nemmeno un tuffo».
Si ricorda qualche particolare della premiazione?
«Fu un’emozione unica, anche perché allora non pensavo che ne avrei poi vissute tante altre, anche ai Giochi. Mentre salivamo sul podio, di fronte a noi c’era la piscina del nuoto, dove si allenavano i campioni di allora. Fra gli altri ricordo in particolare l’americano Don Schollander, che a soli 18 anni era già un mito. L’anno primo era stato il primo al mondo a scendere sotto i 2 minuti nei 200 stile libero e a Tokyo conquistò quattro ori».
Da allora la sua vita in qualche modo cambiò?
«Non direi. Ma ricordo che al mio ritorno in Italia, a Bolzano mi festeggiarono e io mi sentivo come un Papa. Sfilammo per la città tra i tifosi su un’auto scoperta. Davanti c’eravamo io e mio padre, dietro un po’ in disparte mia madre. Poverina, stava spesso a casa da sola mentre io e papà giravamo il mondo per le gare. Eppure non si è mai lamentata. Ma ogni tanto, quando si poteva, la portavamo con noi».
Non è stato invitato a queste Olimpiadi di Tokyo 2021, magari come dirigente Fina o per il suo argento nell’edizione 1964?
«Sì, avevo già il biglietto aereo come rappresentante del Comitato Tecnico della Fina, la Federazione mondiale. Ma ho qualche problema di salute e non me la sento».
E come la vivrà questa Olimpiade?
«Con emozione. Ogni tanto mi riguardo le immagini in bianco e nero di quelle gare del 1964. Io sono sempre stato abbastanza freddo di carattere, ma un po’ di commozione, non lo nego, mi prenderà vedendo in tv un’altra Olimpiade a Tokyo, tanti anni dopo la mia, anche se la piscina è un’altra e mancherà il pubblico per il Covid».
Pensa che tra gli azzurri ci sia qualcuno in grado di fare un colpo alla Dibiasi?
«Ci sono tanti giovani e chissà che uno di loro, come feci io, non peschi il jolly. Sarebbe come rivivere quel mio argento di Tokyo 1964».