La Stampa, 21 luglio 2021
Intervista a Jonathan Franzen
La battaglia è persa, inutile ostinarsi a negarlo. Jonathan Franzen non è per niente felice di essere stato vendicato dalla realtà, ma la natura ha dimostrato dalla Germania al Canada che la catastrofe ambientale è già qui. Sperare di prevenirla limitando le emissioni di gas è un’illusione, per quanto ben intenzionata e comunque utile. Perciò tanto vale concentrare le risorse sull’adattamento e la mitigazione dei danni, nella speranza di salvare il salvabile, a partire dal maggior numero possibile di vite umane. Anche perché, come avverte l’autore del libro E se smettessimo di fingere?, «il futuro della nostra civiltà è a rischio».
Nel 2019 fa lei aveva pubblicato sul New Yorker il saggio What If We Stopped Pretending?, dove chiedeva di smettere di puntare a fermare il riscaldamento globale riducendo le emissioni. Perché?
«A giugno ero stato in una foresta vicino Berlino, e un incendio l’aveva distrutta. Mi aveva scioccato, perché avevo capito che il cambiamento climatico stava avvenendo davanti ai miei occhi. Intellettualmente lo sapevo già, ma l’esperienza emotiva di quell’inferno mi aveva spinto a rilanciare il mio messaggio. Negli scritti precedenti avevo sottolineato che altre cose stanno accadendo all’ambiente, oltre al riscaldamento globale, a cui dovremmo prestare attenzione».
La coprirono di critiche, accusandola di fare il gioco dei negazionisti.
«Ci sono persone che hanno lavorato sul clima per 30 anni, dedicando la carriera al tentativo di convincere il mondo a prendere iniziative serie per limitare il carbonio nell’atmosfera, per evitare il disastro. Quando dici a qualcuno che quanto ha fatto per 30 anni è essenzialmente nulla, arrabbiarsi è una naturale risposta umana. Poi c’è anche una dimensione politica. Negli ultimi decenni la battaglia negli Usa è stata fra i democratici liberal, che considerano i cambiamenti climatici una questione seria, e i repubblicani, che fingono non esista. Ma combattere la battaglia ha senso solo se il messaggio dei democratici può portare ad un risultato positivo. Se invece dici che è tardi, e possiamo smettere di batterci con i repubblicani perché tanto abbiamo sprecato l’occasione di evitare il disastro, non vieni accettato bene politicamente».
Le inondazioni in Germania e gli incendi in Canada confermano che abbiamo perso?
«Per molte ragioni sì, e ci sono motivazioni scientifiche. Primo, il carbonio che mettiamo nell’atmosfera ha effetti per decenni, se non secoli. Quindi le temperature continuerebbero a salire, anche se oggi portassimo le emissioni a zero. Poi ci sono effetti come lo scioglimento del permafrost e dei ghiacciai, o i mutamenti chimici negli oceani. Questi processi sono stati messi in moto e proseguiranno, anche se smettessimo di forzare il riscaldamento globale con le nostre emissioni. Gli scienziati dicono che tutto ciò sta avvenendo prima di quanto avessero previsto, oltre gli scenari peggiori. Se nel 2000 avessi detto che nel 2021 in British Columbia ci sarebbero stati 45 gradi Celsius, pochi mi avrebbero creduto. La situazione è davvero allarmante, un cammino accidentato aspetta la nostra civiltà».
Quando nel 2019 scrisse il suo articolo alla Casa Bianca c’era Trump, che negava l’emergenza; ora c’è Biden, che ne ha fatto una priorità. Le sue politiche sono inutili?
«Ha certamente senso continuare a fare tutto il possibile per ridurre le emissioni. Anche se riuscissimo ad ottenere solo un modesto rallentamento, meriterebbe comunque lo sforzo. Io però ho voluto attirare l’attenzione sul fatto che ci sono costi per sviluppare l’energia rinnovabile. Uno è che togli risorse, non infinite, al lavoro da fare per renderci più resilienti davanti agli effetti del clima estremo. Se punti tutto su una differenza marginale nelle emissioni di carbonio, trascuri altri problemi ugualmente importanti. La mia preoccupazione riguardo la direzione di Biden è che il focus resta sulla soluzione del problema climatico, invece di affrontare il fatto che esiste già. Non è quello che vorrei, come partigiano del mondo naturale. Quando si parla di creare nuovi posti di lavoro verdi sindacalizzati, si intende lo sviluppo massiccio e centralizzato di solare ed eolico. Ci sarebbero alternative efficaci, come il solare sui tetti delle case, ma vengono ignorate perché non rientrano nel modello economico e politico delle infrastrutture enormi».
La prevenzione resta utile, ma non risolve?
«Sì. Siamo impegnati in una battaglia per rallentare leggermente il cambiamento climatico, non ottenere temperature gestibili. Forse possiamo guadagnare qualche anno, ma dovremmo usarlo per costruire le protezioni necessarie a difendere la nostra civiltà dall’instabilità a cui andiamo comunque incontro».
Se gli obiettivi sono adattamento e mitigazione, ci sono approcci diversi. Quale dovremmo seguire?
«Dopo gli incendi dell’anno scorso in California, che bruciarono 3 milioni di ettari, la risposta del governatore fu che entro il 2035 avremo una flotta di veicoli completamente elettrica. Ma di questo passo nel 2035 non ci saranno più foreste da proteggere. Investirei meno sulle auto elettriche, che forse daranno vantaggi marginali tra vent’anni, e più nella gestione immediata dei boschi trascurati da un secolo. Questo però richiede una volontà politica che non esiste».
La prevenzione di inondazioni come in Germania non richiede grandi piani che solo il governo può fare?
«Certo. Se usi un trilione di euro per rendere l’Europa settentrionale più resiliente alle inondazioni, produci un risultato concreto. Se li spendi per coprire il continente di eolico e solare, ottieni una piccola riduzione su scala globale delle emissioni di carbonio. Cosa preferireste? Io il risultato concreto, e penso che la gente morta in Germania avrebbe apprezzato un controllo migliore delle inondazioni».
Le inondazioni avrebbero contribuito anche al recente crollo dell’edificio a Miami. Gli Usa dovrebbero mettere in sicurezza le coste?
«Assolutamente. Se si sciolgono i ghiacci dell’Artico e l’Antartico non possiamo fare nulla, perché parliamo di un innalzamento dei mari incompatibile anche con la vita a New York. Fino ad allora, però, ci sono iniziative buone da prendere anche dal punto di vista della conservazione della natura. Per secoli in America abbiamo distrutto le paludi, che avevano una funzione nell’assorbire gli uragani. Nei miei sogni, in futuro la gente imparerà a convivere con la natura. Gli uomini dovrebbero ritirarsi in aree urbane densamente popolate e ben difese dai fenomeni estremi, lasciando che la natura segua il suo corso nel resto del pianeta».
Se non lo capiamo la civiltà rischia la distruzione?
«Esatto. Puoi costruire un muro per contenere il mare a Miami, ma fra dieci anni sarà scavalcato. Forse dovresti chiederti se oggi Miami è un buon posto dove avere una grande città, o non sarebbe meglio il progressivo spopolamento della Florida meridionale. Queste sono le conversazioni che dovremmo avere, ma le ostacola la convinzione dei democratici liberal che servono più auto elettriche per risolvere il problema».
Jeff Bezos ieri è andato nello spazio, anche perché pensa che l’umanità debba prepararsi ad un piano B.
«Sono assolutamente favorevole a ricollocare Bezos su un altro pianeta, dove spero passi il resto della sua vita».
Un altro miliardario, Bloomberg, dice che dovremmo focalizzarci sulle cose certe: le temperature aumentano, l’inquinamento danneggia la salute, la transizione ecologica è utile anche sul piano economico.
«In generale ha ragione, ma quando subentrano i soldi la questione diventa politica: chi li incasserà? Le grandi compagnie energetiche, quelle per le costruzioni, o le piccole imprese che installano i pannelli solari? Purtroppo nel mondo dello stato interventista e del grande business le soluzioni del capitale concentrato tendono a vincere, mentre quelle più locali e sensibili vengono eliminate».