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 2021  luglio 20 Martedì calendario

Montenelli era un marchio

Si possono vendere venti milioni e oltre di copie librarie ricorrendo soprattutto al proprio nome, diciamo meglio, al proprio marchio, quello che gli anglofoni definiscono brand? La dimostrazione la fornisce Indro Montanelli, il quale può vantare di aver superato (con innumerevoli riedizioni) quota venti milioni della Storia d’Italia che reca la sua indicazione.
Già: chi compra uno fra i ventidue volumi che continuamente riappaiono è di solito convinto di leggere il pensiero di Montanelli su un secolo, un periodo, un biennio di vita nazionale. La verità è alquanto diversa. Ad aiutarci, almeno in parte, a capire quel che ci sta sotto sono i fratelli Alberto e Giancarlo Mazzuca, nel testo intitolato semplicemente Indro Montanelli, pubblicato da Baldini+Castoldi col sottotitolo «Dove eravamo rimasti». Comprendiamo, quindi, la straordinaria capacità inventiva di Montanelli, un creativo incredibile di situazioni, ritratti, eventi.
Un caso clamoroso: l’incontro con Adolf Hitler, alla frontiera polacca, la cui narrazione è quasi sicuramente stroncata dal direttore del Corriere Aldo Borelli con una scritta a matita rossa: «Palle!». Sulla spesso citata presenza di Montanelli in Finlandia e sugli asseriti incontri con il maresciallo Carl Mannerheim il docente a Turku Luigi G. De Anna contesta, dati alla mano, non il Montanelli giornalista bensì il Montanelli fonte d’informazione storiografica.
La produzione montanelliana, durata molti decenni, è immensa. Ci si può chiedere se quella giornalistica sia tutta farina del suo sacco. A volte si ricorda che compaiono editoriali del Giornale a sua firma (solo firma), mentre gli amatissimi «Controcorrente» sono frutto di plurime collaborazioni. Ciò indica la disponibilità del personaggio, non geloso del proprio nome.

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Dino Buzzati lo persuade alla Storia di Roma, segue la Storia dei Greci, poi in quantità arriva la collaborazione con Roberto Gervaso: fino a L’Italia del Settecento, sono sei libri. Seguono cinque volumi ritenuti farina del sacco montanelliano, poi giunge L’Italia littoria, in collaborazione con Mario Cervi, il quale si presta a stendere i successivi undici testi. Cervi patisce l’essere collocato in seconda posizione, che poi è ritenuto un posto d’accatto, da trascurare.
La sua dichiarazione è limpida: «In verità la gran parte dei volumi successivi, come Indro ha sempre riconosciuto, li ho scritti io, con la sua piena approvazione. Poi lui faceva le prefazioni e le postfazioni, che erano molto importanti. Naturalmente, se dovevo inserire il ritratto di un personaggio di cui Montanelli aveva già scritto, attingevo dai suoi articoli».
Dunque, Gervaso e Cervi stendono la prima stesura del libro, mentre Montanelli provvede alla «lucidatura finale», definita significativamente Sidol. Ciò non vuol dire ricondurre la Storia d’Italia in larga misura ai due coautori, bensì, onestamente, a riconoscere che il suo successo si deve al marchio del giornalista reputato storico. Il marchio, però, è altro dalla scrittura.
Il personaggio, del resto, è un originale. La sua migliore definizione la dobbiamo forse a Francesco Perfetti (Le passioni di un anarco-conservatore), il quale ne rammenta «l’empirismo conservatore, temperato da una spruzzata di anarchismo, che lo portava a guardare con simpatie e partecipata considerazione la storia nazionale, il farsi dell’Italia come Stato unitario, e lo spingeva a proclamarsi di destra, sia pure di una destra tutta sua».
Riconosce, ricordano i Mazzuca, il figlio avuto da un’irlandese, la quale non chiede soldi bensì solo una firma. Fa così ricordare la totale trascuratezza di Giovannino Guareschi per un figlio avuto fuori del matrimonio, mai riconosciuto, ma a settantacinque anni dichiarato di sua paternità dal tribunale.
Politicamente rimane clamoroso il passaggio dal Giornale a la Voce: un’avventura col seguito di una cinquantina di redattori, compresi i Mazzuca (che rammentano la vicenda). Ai successi iniziali clamorosi, specie il primo giorno, segue il tracollo, fino alla chiusura. La verità è che Montanelli non capisce, stando alla guida del Giornale, i propri lettori, che dopo il cambio di casacca considera «trinariciuti di destra» succubi di un «fascismo mascherato». Ben altra l’avvedutezza di Vittorio Feltri (il quale avrebbe meritato tutt’altro trattamento dai Mazzuca). Montanelli può aver ragione nel non volere che il quotidiano divenga portavoce del Cav, ma non capisce che senza la duplice manovra berlusconiana la vittoria andrebbe a Occhetto&C.
La verità è che dal ’92 in avanti Montanelli inanella errori. Dapprima riconosce oltre 150 pattisti, seguaci di Mario Segni, il quale ha intorno a sé pure personaggi di sinistra e non si perita di escludere uomini di matrice comunista. Nel ’93 Segni è portato, specie da Federico Orlando, ai vertici della politica del Giornale, che ondeggia quando il dominatore (allora) dello scenario nazionale si sposta a sinistra, salvo tornare, per poi allearsi con Roberto Maroni, trascurando invece le grandi manovre berlusconiane. Così Segni patisce un tracollo dal quale mai risale, mentre l’ambizione di Montanelli per una specie di grande centro s’infrange. Non è un caso che dal ’94 la sinistra culturale, intellettuale, progressista apprezzi o almeno tolleri l’antico avversario. E ricordiamo sempre che innalzare Montanelli al primato nel giornalismo italiano significa, tanto per fare un pugno di nomi, trascurare Giovanni Ansaldo, Enrico Mattei, Giuseppe Prezzolini, Orio Vergani, Leo Longanesi, Luigi Barzini …
Ritrovare nelle pagine dei Mazzuca tanti motivi conosciuti e spesso vissuti è piacevole. Semmai si può auspicare l’eliminazione di alcune mende: il Gran Consiglio il 25 luglio ’43 non si riuniva non da quattro anni e mezzo, bensì da tre; il 12 aprile ’45 Vittorio Emanuele non lasciò il trono; il nome del ministro Scelba è Mario, non Antonio; Enzo Bettiza nel ’76 è eletto senatore con i voti solo liberali, non dei laici.