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 2021  luglio 20 Martedì calendario

La voce di Bourdain è clonata per un documentario

Anthony Bourdain non era un grande attore né uno scrittore acclamato, né una rockstar, ma godeva comunque, soprattutto in America, di una popolarità immensa per il suo modo di raccontare attraverso il cibo storie di popoli, culture, le avventure di grandi chef, i ritmi folli della vita nelle cucine di ristoranti celebri. 
Non stupisce, quindi, che l’uscita nei cinema americani, venerdì scorso, di Roadrunner, un documentario sulla sua vita, abbia suscitato grande interesse e acceso polemiche col regista, il premio Oscar Morgan Neville, accusato di aver ritratto in modo inquietante la sua ultima relazione, quella con Asia Argento. Fin quasi a far intendere che ci sia stata lei all’origine del suicidio di un personaggio che, dopo libri come Kitchen Confidential (la sua consacrazione nel 2000) e successi televisivi come Parts Unknown (oltre cento documentari culturali e gastronomici girati per la Cnn in ogni parte del mondo dal 2013 fino alla sua morte, nel 2018), era ormai divenuto la celebrity mondiale della ristorazione. 
Qualche giorno fa a far discutere erano state soprattutto le circostanze della morte di Bourdain e il rapporto con l’attrice italiana. 
Da un lato un lutto che i suoi fan non hanno ancora elaborato, incapaci di comprendere come un uomo che aveva tutto – denaro, celebrità, bellezza, amori, libertà, possibilità di esplorare gli angoli più remoti del pianeta e di incontrare ogni tipo di umanità – abbia deciso di togliersi la vita in una stanza d’albergo in Alsazia. Dall’altro Asia, una passione travolgente entrata nell’ultimo scorcio della sua vita. 
Neville non l’ha intervistata e le dedica poco spazio. Il regista non formula accuse dirette ma, proiettando immagini inquietanti (comprese le pagine di un tabloid che, pochi giorni prima del suicidio, raccontavano di un rapporto sentimentale della Argento con un altro) e usando un sottofondo musicale drammatico, sembra suggerire – secondo diversi critici – che ci sia lei all’origine della decisione di Bourdain di togliersi la vita. 
Neville nega, sottolinea che il film dà conto delle ossessioni e della depressione di Bourdain, della sua dipendenza da droghe fin da quando, da ragazzo, cominciò a lavorare come lavapiatti in un ristorante del Massachusetts. 
Ma ora Neville finisce sul banco degli imputati anche per un’altra questione che suscita reazioni meno passionali, ma tocca un nodo – quello dell’uso e dell’abuso di tecnologie sempre più potenti e sempre meno controllabili – destinato a diventare rilevante per tutti noi. Bourdain parla a lungo nel film, ma molte delle cose che dice non sono registrazioni di sue dichiarazioni: a parlare è un’intelligenza artificiale che, immagazzinate molte ore di conversazioni di Anthony, ha imparato a riprodurre la sua voce. 
Il regista assicura che quelle che si ascoltano nel documentario sono frasi che lui ha scritto o pronunciato in interviste a giornali che non sono state registrate. La verità sostanziale sarebbe quindi rispettata ma è etico l’uso di una tecnica nota come deepfake, sia pure a fini non malevoli? Quando due anni fa gli scienziati ci hanno mostrato le immagini di Obama e di altri statisti che facevano discorsi minacciosi, in realtà mai pronunciati, per dimostrare la pericolosità di questi artifici digitali, ci siamo sentiti impotenti: una tecnologia con la quale si potrebbe anche scatenare una guerra senza motivo andrebbe messa al bando, ma ci rendiamo conto che è impossibile. 
Non resta quindi che l’autodisciplina, lo sforzo collettivo per identificare e isolare gli abusi di questi strumenti informatici. Neville ritiene di essersi comportato in modo corretto: «Non gli ho messo in bocca cose che non ha mai detto, ho cercato solo di renderle vive». E ancora: «Ne ho parlato con il suo agente e con la ex moglie e mi hanno detto che Anthony sarebbe stato d’accordo». 
Ma qual è il limite? L’uso disinvolto di uno strumento così potente non rischia di diffonderlo moltiplicando, così, anche le possibilità di abuso? È un problema che Neville non si pone: si vanta, anzi, di aver introdotto «una tecnica di narrazione moderna». 
Alla quale altri, con ogni probabilità, faranno seguire una modernizzazione delle fake news.