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 2021  luglio 20 Martedì calendario

Intervista a Jonathan Coe

«Beh, nessuno è perfetto». La battuta finale di un film passato alla storia, A qualcuno piace caldo , pronunciata dall’uomo che corteggia ostinatamente un Jack Lemmon travestito da donna, nel momento in cui ne scopre l’autentica sessualità, riassume il punto di vista di Jonathan Coe, dopo un anno e mezzo di pandemia, sulla letteratura e sulla vita. Lo scrittore che ha raccontato con amaro umorismo l’Inghilterra degli ultimi decenni, dalle liberalizzazioni selvagge della Thatcher al declino del blairismo fino al populismo della Brexit, arriva in Italia per partecipare al Festival Letterature di Roma, il cui tema è "Leggere il mondo": ovvero i libri davanti alla crisi del Covid e agli altri problemi del pianeta. Coincidenza vuole che il suo nuovo romanzo, Io e Mr Wilder (Feltrinelli), sia una riflessione su un argomento simile, il cinema come specchio dell’umanità, a cominciare da Billy Wilder, l’indimenticabile regista di Viale del tramonto , Quando la moglie è in vacanza , A qualcuno piace caldo e altre commedie diventate dei classici. Da sempre un grande fan di Wilder, all’appuntamento romano Coe leggerà un proprio brano inedito, dal contenuto fortemente personale. Ma in questi giorni il 59enne romanziere inglese ha anche molto altro da dire, sulla settima arte, sulla narrativa, sul Covid e perfino sul football.

Partiamo dal suo ultimo libro, Jonathan: perché ci ha messo dentro Billy Wilder?
«Desideravo farlo da quarant’anni, cioè da quando ho scoperto i suoi film e me ne sono innamorato. Di biografie ce n’erano già e ottime, così ho pensato di provare a metterlo in un romanzo».
La storia che racconta è del tutto immaginaria?
«Il personaggio della interprete che accompagna il regista è inventato, ma molte battute che ho messo in bocca a Wilder sono vere, prese da sue interviste e dichiarazioni. Anche nei miei romanzi precedenti, del resto, ho sempre cercato di restare vicino alla realtà».
Per quale motivo la trama si concentra su "Fedora", un film che ebbe meno successo di altri?
«Perché vi si avverte l’ombra che il nazismo, l’Olocausto e l’antisemitismo hanno lasciato su Wilder e sulla sua generazione. In una conferenza stampa per presentare il film, il regista disse che, se la pellicola avesse avuto successo, sarebbe stato "merito di Hollywood", mentre se fosse stata un fallimento, sarebbe stata la sua "vendetta contro Auschwitz’". L’idea di scrivere un romanzo su di lui è nata da quella frase».
Cosa la attira più di tutto in Wilder?
«Il misto di cinismo e romanticismo, che per me sono due facce della stessa medaglia».
La celebre battuta di "A qualcuno piace caldo", "nessuno è perfetto", è un invito a guardare il mondo con più generosità?
«Curiosamente quella battuta non era di Wilder, bensì del suo co-sceneggiatore, I.A.L. Diamond, che ha contribuito ad addolcire il regista e il suo cinema. Nella prima parte della sua vita, la frase non sarebbe stata tipica della filosofia di Wilder. Ma in seguito, secondo me, è diventata il suo marchio di fabbrica: un cinismo accompagnato dall’affetto per il genere umano».
"Nessuno è perfetto" va bene come filosofia di vita anche per lei?
«Credo che sia una buona filosofia per ogni scrittore e certamente va bene per me. Un romanziere dovrebbe sapere che gli esseri umani sono entità complesse, agiscono per motivi diversi, non si possono dividere con l’accetta».
L’umanità si è rivelata tutt’altro che perfetta durante la pandemia, ma ci sono stati anche atti di buon cuore, da parte di medici, infermieri, volontari…
«La pandemia ha fatto emergere il peggio e il meglio del mondo, come spesso accade nelle grandi crisi.
Abbiamo visto leader come Trump che rifiutavano di credere nella scienza e l’America ne ha pagato le conseguenze. Ma abbiamo visto anche atti di eroismo e ingegnosità, a partire dalla rapidità della corsa a trovare un vaccino contro il Covid».
Personalmente, come ha vissuto questo anno e mezzo così diverso da ogni altro periodo della nostra vita?
«Anche prima della pandemia, non avevo una vita molto sociale: quella dello scrittore è un’esistenza inevitabilmente solitaria. Eppure ripenso al primo lockdown, quello della primavera 2020, come a un periodo idilliaco: credevamo che bastasse comportarsi bene, rispettare le regole, chiudersi in casa, e il problema sarebbe scomparso in pochi mesi. Oggi siamo tutti in preda a un’ansia a bassa intensità, consapevoli che dovremo convivere con il Covid ancora a lungo».
I libri possono aiutarci durante sfide come questa?
«Non considero la letteratura alla stregua di una terapia. I libri non ti curano ma riflettono la vita e la vita è diventata sempre più complicata, non solo a causa del Covid naturalmente: perciò trovo che leggere, durante la pandemia, sia stato utile a mantenere l’intima relazione fra autore e lettore, dandoci un’idea di cosa significa la connessione umana, in maniera molto più efficace delle alternative tecnologiche, le piattaforme come Skype e Zoom, che per conto mio sono una parodia dei contatti reali fra le persone».
E che ne dice dell’effetto del calcio? Anni fa, a un festival letterario in Sardegna, andavamo insieme nei bar a seguire le partite dei Mondiali: la ricordo piuttosto tifoso. Come ha vissuto gli europei che si sono appena conclusi con la finale di Wembley?
«La delusione per la sconfitta dell’Inghilterra è stata temperata dalle soddisfazioni che la squadra ci aveva dato fino a quel momento: abbiamo perso la finale ai rigori, l’Italia ha meritato qualcosa in più, giusto così, comunque abbiamo fatto meglio che in passato, i Mondiali del 2022 sono vicini con l’occasione di fare ancora meglio. Una delusione maggiore l’ho avuta per gli abusi razzisti sui social contro i giocatori inglesi che hanno sbagliato i rigori.
Purtroppo, nel Regno Unito, e in particolare in Inghilterra, esiste un problema di xenofobia, che ha in parte contribuito alla Brexit.
L’attuale leadership politica non sembra avere le posizioni che servirebbero per risolverlo. Spero che in futuro ci proverà qualcun altro».