La Lettura, 18 luglio 2021
Storia dei profeti e degli indovini
Non c’è da sorprendersi se Giulio Busi, in un suo libro singolare, assolutamente fuori dall’ordinario, Indovinare il mondo. Le cento porte del destino, appena pubblicato dal Mulino, ponga all’inizio l’effige di Temi, ritratta su un vaso del V secolo a.C. trovato a Vulci e ora custodito a Berlino. L’arte della profezia, in Grecia, è legata alla figura della dea della giustizia e dell’equa distribuzione delle cose, che era solita pronunciare gli oracoli a Delfi prima dell’arrivo di Apollo. Apollodoro ci informa che Temi era figlia di Urano, il dio del cielo, e madre a sua volta di Dike e delle tre Moire – Cloto, Lachesi e Atropo, le instancabili tessitrici del nostro destino. Nel Prometeo incatenato Eschilo ci ricorda che Temi era madre di Prometeo, il titano dai poteri profetici che, oltre a donare il fuoco agli uomini, insegnò loro la scienza del numero e li impratichì nell’osservazione del moto degli astri.
Temi è dunque al centro di un’ampia progenie di potenze divine legate più o meno direttamente alla divinazione. Aggiungiamo che la varietà delle potenze celesti legate alla dea si riflette nella varietà dei modi in cui può declinarsi l’attività divinatoria, dalla pura capacità visionaria all’osservazione del cielo, dal sogno alla consultazione dell’oracolo, dalla decifrazione di immagini alla vaga e indecifrabile preveggenza dell’anima. Tuttavia l’indagine di Busi non poggia, se non incidentalmente, sul mito come strumento di ricerca di un sistema dell’inconscio nei solchi già tracciati della teoria junghiana degli archetipi o dell’analisi di stampo freudiano di pulsioni e rimozioni. Busi è profondo conoscitore della mistica ebraica, e c’è da credere che siano piuttosto i testi della tradizione cabbalistica a suggerirgli il giusto criterio per decifrare la natura della divinazione.
Il progetto di Indovinare il mondo è operativo, concreto, realistico e non ubbidisce a precise istanze normative, se non al sovvertimento della percezione del tempo o alla sfaldatura che, in certe circostanze, favoriscono le premonizioni. Presentando nel 1995 una preziosa antologia di testi della tradizione segreta del giudaismo Busi cita una celebre massima della Mišnah: «Chiunque indaga quattro cose, meglio per lui se non fosse venuto al mondo: ciò che è sopra, ciò che è sotto, ciò che è davanti e ciò che è dietro». Al di là del suo carattere enigmatico, spiega Busi, «questa frase ha la solidità e l’efficacia di un programma empirico, nel quale il paradosso sancisce il divario tra il significato apparente – “non è possibile alcuna conoscenza” – e il significato reale: “La vera conoscenza si estende né più né meno che a tutto l’uomo e a tutto il creato”. Ciò a cui ci troviamo di fronte è dunque un pragmatismo mistico, che respinge l’illusione di una conoscenza inattingibile per costruire una conoscenza possibile, una vera e propria empiria dell’anima».
Nel mistero del Tetragramma è compresa l’assoluta inconoscibilità dell’Essere supremo, come pure il suo estendersi reale in ogni anima, tempo e luogo, fino agli estremi del mondo conoscibile e inconoscibile, manifestato e non manifestato.
Dunque anche il luogo segreto della divinazione deve ruotare intorno al paradosso di una possibilità e insieme di una impossibilità, entrambe assolutamente radicali, che ci porta a configurarci il nostro più intimo essere come un’ipostasi a un tempo fissa e variabile, stabile e pur soggetta all’incerto fluttuare di prove empiriche e di incerti presentimenti.
Indovinare il mondo è allora costruito come un’unica raccolta di premonizioni emergenti da una compagine variegata di esperienze, percezioni, e condizioni più o meno accidentali, in cui le voci di antichi testi sumerici e di tragici greci – esemplare la forza delle visioni di Cassandra nell’Agamennone di Eschilo – si alternano sapientemente con misteriosi personaggi di E.T.A Hoffmann, con richiami alla mistica delle sefiroth e con singolarissimi episodi della vita reale.
Giulio Busi si serve dell’inconscio solamente «per comodità», per riassumere in una sola parola la trama di innumerevoli percezioni, episodi allusivi, turbamenti, eventi inaspettati o sensazioni fortuite che formano ciò che egli chiama «Il Gran Teatro dell’Anima».
Sul finire del XIX secolo troviamo la stessa metafora nel trattato D e l’intelligence di Hippolyte Taine: il nostro stato abituale, spiegava Taine, è regolato da un’«immagine dominante» in piena evidenza, paragonabile a un attore che recita da solo una parte del nostro «teatro mentale». Dalla profondità infinita di quel teatro, ove si affolla la «Via Lattea» di immagini vaghe e confuse, possono pure emergere anticipazioni o figure presaghe di complesse teorie, poi debitamente delineate e cristallizzate. Nello stesso teatro recitano tutte le attività della mente, comprese quelle «rappresentazioni finalizzate» a cui accennava Freud nell’Interpretazione dei sogni e che comprendono le rappresentazioni sensoriali, le combinazioni artistiche e le trovate di spirito come pure le idee del pensiero astratto. Tra quelle rappresentazioni, spiegava Freud, l’inconscio può rintracciare ogni volta quella più conveniente allo scopo.
Seguendo il principio di una vita empirica dell’anima, si sarebbe ora tentati di allargarne il raggio di azione, fino ad annoverare, tra le «rappresentazioni finalizzate» di Freud, le premonizioni che intervengono anche nel pensiero matematico. Nel suo momento più creativo, l’attività del matematico non consiste affatto in una serie di deduzioni formali da un insieme prefissato di assiomi. Sulle prime non c’è nulla di certo: prevale invece una nebbia empirica, un andare alla cieca guidati da presentimenti e immagini oscure, ma anche da calcoli privi di chiaro significato e orientamento, che anticipano, di per sé stessi, concetti di straordinaria limpidezza.
Di questo fenomeno ci sono numerose testimonianze. In una lettera alla sorella Simone il matematico André Weil si riferiva alla potenza dell’analogia, alle possibili somiglianze tra diverse teorie e alla possibilità di trasferire delle dimostrazioni tali e quali da una teoria all’altra, in modo da fare di due teorie una sola. Finché dura la percezione dell’analogia, egli spiegava, la mente passa per «torbidi e deliziosi riflessi», «carezze furtive» e «screzi inesplicabili», finché non ottiene una sola teoria, la cui «maestosa bellezza» non riesce più a emozionarci.
Nella Prefazione al suo saggio del 1888 Was sind und was sollen die Zahlen? («Che cosa sono i numeri e cosa dovrebbero essere?»), Richard Dedekind avvertiva che chiunque studiasse le sue teorie vedrebbe sfilare forme vaghe e indistinte, in cui sarebbe impossibile riconoscere subito i numeri con cui è abituato a calcolare. Eppure spettava a quelle forme preparare il lettore a una piena comprensione di concetti, come quello di numero intero naturale, che ci appaiono così ingannevolmente semplici. La nostra mente, spiegava Dedekind, lavora spesso senza scopi definiti, ma guidata da una sorta di preveggenza di ciò che alla fine vuole catturare.
Il celebre logico e matematico Stephen Kleene, che negli anni Trenta perfezionò i formalismi per definire il concetto teorico di calcolabilità, rammentava come l’idea risolutiva nacque, durante il suo apprendistato con Alonzo Church, da una serie interminabile di esempi, cioè di tentativi e di prove empiriche disposte inizialmente, c’è da supporre, senza piano né scopo, e che solo a posteriori apparvero orientate a ciò che doveva essere scoperto.
Più in generale, la possibilità di immaginare l’architettura di una teoria o di un teorema ci viene dall’analisi, una tecnica di indagine che già i greci conoscevano. Chi usa questa tecnica dà provvisoriamente per vera la tesi che vuole dimostrare e va alla ricerca, passo per passo, dei princìpi, delle ipotesi o delle verità già dimostrate da cui potrebbe essere dedotta. La ricerca procede quindi con l’indovinare le ipotesi più plausibili da cui poter dedurre la tesi. Paragonabile per un verso a un alchemico solve et coagula, l’analisi è allora il momento più incerto e più creativo, mentre la costruzione di una sintesi, basata su un procedimento deduttivo, che segue il cammino opposto dalle ipotesi «indovinate» fino alla tesi, potrebbe sembrare perfino superflua e ingiustamente dimentica del cammino analitico.
La premonizione può anche essere precisa, lapidaria, e Busi ce ne dà un singolarissimo esempio nel racconto della terrazza del King David. Malka sogna in anticipo il crollo delle Torri gemelle; nel maggio 2019 prevede la crisi sanitaria che incomberà di lì a poco sull’Europa e pochi mesi prima di morire predice all’amica Ester, con straordinaria esattezza, un ritorno in Israele, con un’offerta di lavoro per un’importante organizzazione ebraica. Precisi e lapidari sono anche, talvolta, gli eventi della storia: certi fatti possono annunciarne altri, magari di segno opposto, con implacabile precisione. Erodoto notava che «c’è un ciclo delle vicende umane, che col suo volgersi non permette che sempre gli stessi siano fortunati». E infatti Policrate, il tiranno di Samo di cui ci parla lo stesso Erodoto, essendo stato sempre fortunato dovette infine scontare la sua fortuna con una morte orribile. Da quel che narra Erodoto, c’è da presumere che il faraone Amasi l’avesse prevista in anticipo.
Busi organizza la sua indagine per categorie, e la più normativa, la più conforme a regole canoniche, è dedicata all’«Ora oscura», l’ora del cambiamento di luce, all’alba o al tramonto. In generale sono il trapasso, la metamorfosi, il mutamento dell’ora e della luce a favorire le visioni e a liberare il sogno dalle impressioni e dalle angustie più vivide dello stato di veglia. Questa, avverte Busi, «è la norma della mantica, della premonizione, della trasgressione temporale». La divinazione pretende una cornice, un ambiente in cui si mescolano i tempi, i mondi e i destini, in una specie di ambiguità sospesa sul vuoto e sull’irreale. È il caso di Achille che dorme sulla battigia e si sogna di Patroclo che gli predice la morte. Il confine che separa la terra dal mare è anche il luogo in cui Proteo, sorpreso da Menelao nel momento del riposo, gli svela il presente e il futuro nel quarto libro dell’Odissea.
Non è un caso che Temi fosse pure figlia di Urano e madre di Prometeo. Il titano incatenato alla rupe aveva anche il compito di presiedere a quella zona incerta del cielo in cui accadono i fenomeni più decisivi. Prometeo, ci informa Eschilo, insegnò agli uomini «la difficile scienza del sorgere e del tramontare degli astri». È verosimile che la difficoltà a cui accenna Eschilo fosse quella di distinguere i tempi esatti dell’evento celeste. Il tramontare è mal discernibile (il verbo è dyskrínein, da cui il discreto, il calcolo che spezza il continuo in una serie discreta di istanti) e noi lo possiamo fissare o prevedere solo per approssimazione. L’ora oscura è pure legata al mito di Urano, che non era semplicemente il dio del cielo ma un’allusione a quell’aspetto del cielo per cui gli astri si rendono di volta in volta manifesti o si sottraggono alla vista. Questo non è il cielo notturno ma il cielo situato tra l’Etere (Aithér) e la notte, tra la volta luminosa e l’oscurità. Zenone di Cizio diceva che ouranós è «l’estremità o il limite dell’etere [il cielo superiore, luminoso] da cui e in cui tutte le cose sono manifestate, poiché tutte le cose girano all’infuori di esso». Dunque lo stesso Ouranós, il progenitore degli dèi, era il cielo ambiguo dell’imbrunire e dell’albeggiare, in cui sorgevano e tramontavano le costellazioni e in cui la profezia poteva avere libera espressione. In fondo, le lunghe e aride liste di numeri in cui consistono le effemeridi babilonesi sono l’espressione matematica di un vaticinio che vede l’astro sospeso sull’orizzonte in una condizione tra il reale e l’irreale, tra l’osservabile e il non osservabile, tra il manifestato e il non manifestato. Le valutazioni numeriche che descrivono questa condizione di ambiguità sono per necessità esse stesse imprecise, e si possono solo ottenere con processi numerici di interpolazione tra i nodi di una griglia temporale discreta.
Vago e sospeso nell’ambiguità di un’infausta premonizione celeste è anche il destino degli amanti shakespeariani, Romeo e Giulietta. In procinto di recarsi mascherato alla festa dei Capuleti, Romeo legge nel cielo il suo destino: «L’animo mio presagisce una qualche terribile conseguenza che tuttora si tiene sospesa in alto alle mie stelle». E il peso della premonizione si legge pure nel cielo albeggiante dipinto dalle parole di Frate Lorenzo nella scena terza del secondo atto: «L’alba dagli occhi grigi sorride alla notte accigliata, frastagliando di sprazzi di luce le nubi da levante; e la tenebra sbrecciata barcolla come un ubriaco, mentre si ritrae dal varco del giorno e dalle ruote infuocate di Titano».
Premonizioni di eventi tragici sembrano così favorite dall’ora oscura, l’ora ambigua della soglia di bronzo su cui campeggia il Titano. Eppure nell’ora oscura Busi fa anche vivere la forza seminale di hokmah, la sefirah della sapienza, in cui opera quella fatale imperfezione o mancanza che i greci chiamavano stéresis, che si apre insieme al darsi reale di ogni cosa, come un presupposto per poter «riformare, ricreare, riprodurre oltre la porta del nulla».