la Repubblica, 19 luglio 2021
Biografia di Julia Ducournau
CANNES — “Vorrei che poteste vedere la bellezza dei miei mostri”. Julia Ducornau, 37 anni, francese, ha compiuto l’impresa con la sua storia d’amore fatta di metallo e di sangue e non ci sono polemiche o critiche che possano scalfire un risultato storico. Spike Lee, presidente della giuria, ha sostenutoTitane almeno quanto le cinque giurate. Alla cena dopo la cerimonia di chiusura del festival ha voluto conoscere la straordinaria protagonista, la debuttante Agathe Rousselle: l’ha riempita di complimenti e si è fatto spiegare la scena in cui l’assassina in fuga si spacca il naso su un lavandino per alterare i suoi lineamenti e sembrare un maschio. Lei mima e lui confessa: «A un certo punto ho dovuto distogliere lo sguardo, non sostenevo la scena». Chissà se l’entusiasmo di annunciare al mondo il verdetto ha originato la gaffe – si è lasciato scappare a inizio cerimonia il film Palma d’oro – che quasi ha oscurato la vittoria. «Io ho vissuto comunque la cerimonia come se lui non avesse detto niente, con la stessa tensione ed emozione», racconta la regista, bionda e statuaria, che ha festeggiato fino alle cinque del mattino.
Titane ha diviso i critici. «Quando si fa un film così ci si aspetta che possano esserci delle polemiche, ma per me anche come spettatrice importa che tocchi delle corde, non se produce una reazione di rigetto o adorazione. Ciò che conta è che arrivi all’anima di chi lo vede, che faccia riflettere e produca un dibattito interiore. È questa la mia missione». Il titolo rimanda alla placca di titanio che viene applicato in testa alla protagonista, Alexia, dopo un incidenteda bambina. La ritroviamo ventenne mentre si muove sensuale su un’auto in un locale notturno: con la sua Cadillac ha un rapporto speciale, anche sessuale, che sarà gravido di conseguenze. È una serial killer – il fermaglio per capelli è un’arma micidiale – e per sfuggire alla polizia è costretta a trasformarsi in un ragazzo, si deturpa il viso, rasa i capelli e nasconde con le fasce il seno e quella pancia che diventa sempre più grande. La accoglie, volendo riconoscere in lei il figlio perduto, il pompiere Vincent Lindon, che la introduce alla vita di caserma ad alto tasso di testosterone. «Sono partita dagli stereotipi maschile e femminile per poi portare il pubblico in un mondo più fluido e inclusivo», spiega la Ducournau che ha ringraziato la giuria per aver compreso “che abbiamo bisogno di maggiore diversità al cinema e nelle nostre vite”. Il concetto di fluidità per le significa «far accettare al pubblico che il genere non ha pertinenza con la storia. Bisogna sentirsi liberi dai preconcetti su quel che dovrebbe definire un essere umano. Nel mio film Alexia si trasforma per necessità, non per scelta». Un discorso che vale anche per la regista e per la vittoria «che accetto come artista, non per il mio genere. Essere donna non mi definisce come persona e cineasta ».
Resta il segnale forte di essere la seconda regista a vincere la Palma d’oro, 28 anni dopo Jane Campion e Lezioni di piano (un onore condiviso allora con Chen Kaige): «Il mio pensiero è corso a lei, a quel che deve aver provato allora. Io sono la seconda, ma so che ce ne saranno altre dopo di me, la marcia prosegue». L’opera di Ducornau è formalmente lontana dal cinema di Jane Campion, Titane è accostato ai film di Lynch, Cronenberg, Tarantino. E accusato di essere ultraviolento: «Non mi interessa la violenza gratuita, la trovo noiosa. Posso essere tentata dal mostrare un po’ di sangue, ma non vado mai oltre. La vera violenza del film per me è la scena iniziale in cui il padre biologico non guarda nemmeno negli occhi la figlia».
Ducournau è abituata alle polemiche: il film di debutto del 2016, Raw, storia di un’adolescente vegetariana che si scopriva cannibale, causò svenimenti tra il pubblico. La regista francese vanta una conoscenza assoluta del genere horror. «Per forza – ci raccontò – ci sono cresciuta. Ne vedo uno ogni sera, li vedo tutti, anche quelli brutti». L’iniziazione al genere è stata casuale quanto precoce: «A sei anni per sbaglio facendo zapping vidi in tv Non aprite quella porta.Fui più affascinata che spaventata, mi sembrava un cartoon pieno di pupazzi. Ho scoperto il titolo del film solo dieci anni più tardi. L’altro shock, da adolescente, è stato l’incontro con il cinema di Cronenberg, il suo lavoro sui corpi». L’accostamento al cinema del regista di Crash la riempie di gioia e commozione. Sostiene che l’ossessione per l’anatomia e la mutazione le deriva dall’essere figlia di due veterinari, «crescere con loro mi ha dato una visione chiara di cosa sono i nostri corpi e cosa diventeremo. La metamorfosi non mi spaventa. Ho cominciato a raccontarla in storie maledette che scrivevo a sei anni e che mettevano a disagio le maestre. Sono cresciuta a pane e horror». Con una passione per quello italiano: «Ho incontrato Ruggero Deodato e adoro Dario Argento. L’Italia è un paese che mi ispira, a volte mi fermo per settimane da voi a scrivere, è il luogo della mia creatività».