Il Sole 24 Ore, 19 luglio 2021
Intervista a Bruno Bertelli
Testa e cuore oggi sono due facce della stessa medaglia. Ma è la sfera emotiva a guidare la parte razionale. Ne è convinto Bruno Bertelli, direttore creativo mondiale di Publicis. «Gli acquisti stanno diventando sempre più emotivi, irrazionali, attivano corde che vanno oltre la ragione. Tutto questo avviene perché abbiamo un disperato bisogno di un piccolo momento di felicità. La gente ha voglia di cose pazze, fuori dagli schemi. Il bisogno di desiderare qualcosa si riscontra nel nostro viaggio continuo negli store virtuali, negli ordini online, nel delivery. In fondo la consegna a casa è diventata un momento epifanico», afferma Bertelli, trionfatore ai Cannes Lions 2021, gli oscar mondiali della pubblicità. Publicis Italia è riuscita a battere ogni record in un’edizione che ha visto competere 29.074 progetti provenienti da 90 Paesi: sono 30 i leoni vinti, tra cui l’ambitissimo Titanium, il più prestigioso perché dedicato ai progetti che cambiano le regole della comunicazione segnando una svolta. Salgono sul podio i progetti disegnati per Heineken, Diesel, Barilla, Bottega Veneta e Netflix. il Titanium se lo aggiudica “Enjoy Before returning” di Diesel, ma il colosso della birra vince anche con la campagna “We’ll meet again” che celebra la resilienza dimostrata dalle persone durante la pandemia. «Il marketing classico con le strategie predefinite in partenza è destinato ad esaurirsi. Oggi il nuovo mantra è legato alla flessibilità, alla fluidità. Ecco perché tantissimi brand decidono di non avere più un pay off, quel marchio distintivo che restava immutato nel tempo, e hanno l’ambizione di essere percepiti con una specifica personalità. Ma tutto questo ha delle criticità: accorciati i tempi tra desiderio e acquisto attraverso i tantissimi nuovi touchpoint, tutto diventa più imprevedibile», precisa Bertelli.
Fattore tempo: in che modo le campagne possono competere con questa accelerazione?
Devi cogliere prima di altri cosa sta avvenendo. Oggi per esempio occorre cercare di alleviare il più possibile il senso di colpa negli acquisti. Ecco perché tante campagne sono declinate su sostenibilità o solidarietà: si aiuta la gente a superare il proprio senso di colpa.
Non bastano più le narrazioni?
Ci sono, ma trovano un senso attraverso le azioni e i comportamenti. È finita l’era del purpose generico, della campagna manifesto. È la singola azione che ti connota e che fa la differenza.
Dove si respira questa trasformazione?
Oggi l’area fashion è quella più avanguardistica e destrutturata, con strategie più sfumate ma incentrate sull’azione. Gucci sta facendo scuola con una rivoluzione sistemica: di fatto la marca definisce un comportamento che diventa appealing per i consumatori. Spesso si tratta di un comportamento irrazionale, diverso rispetto alla strategia scritta che è razionale per definizione. C’è un ritorno agli anni ’80, a quell’euforia che si esplicita nei colori, nei formati, nelle richieste del mercato.
In un marketing in divenire, come si intercettano i comportamenti emergenti?
La partita si gioca sul dato, che diventa uno strumento importante per cogliere la fase embrionale dei fenomeni. La fotografia deve essere in tempo reale, utilizzando indicatori in grado di cogliere qualcosa che accade in fieri. In realtà abbiamo bisogno di elementi molto più qualitativi che quantitativi. Dobbiamo unire la lettura dei dati al social listening. L’obiettivo è intercettare le tendenze in anticipo, prima che si esplicitino.
Uscire dagli headquarter per leggere la contemporaneità. Vanno in archivio le vecchie analisi di mercato?
Oggi i brand sono tutti topical: si riferiscono a quello che sta avvenendo fuori e quindi è prioritario essere rilevanti per la cultura del tempo. È una visione quasi randomica, che comporta l’anticipare ciò che sta per avvenire. In questo senso il comportamento della marca deve essere consistente e coerente. Ed ecco perché il fashion sta uscendo dall’emergenza della pandemia più in fretta di altri settori: si è saputo riadattare in modo agile, snello.
Si va verso l’analisi delle community di consumatori?
In realtà sono scettico sull’iper-targhettizzazione. C’è una fluidità nel consumatore che oggi è uno, nessuno e centomila. Vincono le sue identità plurime, con una lettura che non è più univoca. Distinguersi è l’asso nella manica.
La prossima rivoluzione arriverà da oriente o occidente?
Oggi la parte del mondo che trovo più interessante è l’Asia, che sta sviluppando il lancio di nuovi prodotti in modo incredibile. Qui c’è la Corea: oggi i maggiori testimonial nel fashion sono attori e personaggi coreani. In oriente hanno chiaro il concetto del vecchio e del nuovo, concetto caro all’America degli anni ’60 con la sua controcultura. Ma oggi negli States si cerca rassicurazione, mentre a Est, spinti dalla Generazione Z, si osa con più coraggio.
Che impatto genera quell’inafferrabile generazione Z sulle nuove campagne?
La generazione Z è davvero un altro mondo. Per chi fa pubblicità e studia questi fenomeni è come se si ricominciasse tutto daccapo. D’altronde è interessante da decifrare le modalità con cui consumano i servizi, i prodotti, le marche. C’è una cesura netta col passato. Mentre per i millennial c’era un continuo lamentarsi come elemento di fondo, ma alla fine anche la necessità di rapportarsi alla generazione precedente, per la nuova Generazione Z la saracinesca è chiusa rispetto al passato, sintetizzata dall’«Ok, boomer».
Il futuro per le professioni della pubblicità?
È necessario integrare diversi profili: sociologo, antropologo, analista. Competenze trasversali per leggere i mini-trend prima che diventino fenomeni rilevanti. Mulino Bianco nell’area colazione ha cambiato tre volte in poco tempo la propria narrazione. Cogliere il dinamismo è vincente.