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 2021  luglio 18 Domenica calendario

Silenzio parla il Baba

L’apertura di un celebre romanzo indiano del secolo XI d.C. popola il quartiere dei piaceri di una fittizia ma realissima città con la fauna caratteristica dell’ambiente. Aggiornando un poco la nomenclatura, fra i più autorevoli clienti non mancano evasori fiscali e ministri, alti ufficiali e clinici illustri; e non manca il maître à penser, in termini indiani il guru che ostenta non la levatura spirituale, ma la testa dai capelli tinti! Conforta scoprire che il guru da vignetta non è stato inventato oggi a uso (molto oneroso) del discepolo ebete, ormai globalizzato. Così come frequente è in Occidente l’applicazione ironica del termine guru alle personalità che fanno scuola nei campi più trendy dello scibile e dell’attività umana...
Pur se testimoniata da sempre anche in India, la parodia dei personaggi che si atteggiano a guru contribuisce ad alimentare una prospettiva falsa. Di fatto la figura del guru, del maestro spirituale, è centrale nelle religioni indiane essendo il punto di riferimento di ogni tradizione. La verità riluce in una persona: la rivelazione si attualizza in un incontro, si incarna in una relazione con chi si crede abbia sconfitto il male e la morte. Oggi come ieri, per i discepoli il guru è «Dio che parla e che cammina». Prezioso per recuperare l’esatta dimensione del guru è il recentissimo Oral Testimonies on Sai Baba di Antonio Rigopoulos pubblicato dalle Edizioni Ca’ Foscari. Il guru ovvero il “santo” al quale è dedicato, scomparso il 15 ottobre 1918, è eccezionale pur se poco noto al pubblico in Occidente, e anche il libro è per molti versi eccezionale. Di che cosa si tratta? Nel 1985 il professore cafoscarino di Indologia, allora laureando in Storia delle religioni, registra in due mesi di missione a Shirdi (Maharashtra, vicino ad Aurangabad) e nell’Andhra Pradesh le parole degli ultimi testimoni che avevano conosciuto e seguito il Sai Baba, oggi come ieri popolarissimo in tutta l’India quale emblema di santità e operatore di ogni sorta di miracolo: il volume ora pubblicato contiene le trascrizioni dei colloqui precedute dalle vivaci note di viaggio e ricerca di Rigopoulos. Non solo: nella versione a stampa sono presenti dei QR code che consentono di accedere in via del tutto gratuita da smartphone o altri dispositivi ai documenti audio originali, restaurati e resi pubblici come risorsa multimediale all’interno dell’edizione digitale ad accesso aperto (Open Access). Una forma di diffusione, nel caso del volume di Rigopoulos, felicemente intonata non solo allo spirito della celebre “dichiarazione di Berlino”, ma soprattutto a quello dell’insegnamento dei guru autentici, del tutto gratuito: per riprendere una metafora del Sai Baba, ciò che egli richiedeva ai discepoli non erano due monete, bensì «la fede e la coraggiosa pazienza».
La denominazione del santo di Shirdi è un appellativo, perché il nome di nascita è rimasto sconosciuto, volutamente da parte sua. Sai – pronunziato con nasalizzazione finale, sain - significa infatti “santo” e Baba “padre”, con l’inflessione familiare del nostro “papà”. Come il nome, anche i genitori, la casta, il luogo di nascita sono ignoti: l’aspetto è quello di un faqir, di un asceta musulmano; in effetti, dopo essere comparso a Shirdi all’età apparente di sedici anni egli vi abita stabilmente nella diroccata moschea. Se questa è la sede, la moschea è però da lui eletta come luogo di spiritualità senza barriere, al pari del suo ammaestramento che non ha confini istituzionali o dottrinali: «Pensa a Dio e uccidi l’ego» è un’affermazione che si può considerare la sintesi suprema della sua come di ogni altra genuina ricerca interiore. Essa è espressa in modi diversi: «Noi dobbiamo riconoscere il nostro Sé», «Chi siamo noi? Giorno e notte pensate a questo», per promuovere così il dialogo con l’Essere profondo ed eterno. Alcune espressioni mescolano con naturalezza esperienze islamiche e hindu, come l’assoluta e trascendente onnipotenza di Dio e la sua lila, il “gioco” imperscrutabile con cui Egli genera l’illusione del mondo. Altre espressioni appaiono spregiudicate e paradossali, come spesso accade nelle grandi coscienze religiose non inquadrabili in alcun sistema o dogma: «Damia [nome di un devoto] dà la caccia al cielo! Non è pago di ciò che Dio gli ha dato...». Anche il cielo è meta illusoria; fuorviante e superfluo appare al Sai Baba perfino il rito di iniziazione e il conferimento di mantra, capisaldi del rapporto guru-discepolo in ambito hindu.
In definitiva, il Sai Baba di Shirdi (del quale il Sathya Sai Baba di Puttaparthi, 1926-2011, ben più noto in Occidente, proclamò a quattordici anni di essere la reincarnazione) può esser visto come un veritiero paradigma indiano di “santità”; di questa, la posizione di guru è una conseguenza, da lui significativamente non rivendicata mai, ma consacrata dai fedeli. Qual è il suo inconfondibile tratto distintivo? Abitare nella propria essenza, nella profondità del Sé, il Brahman che è pura coscienza, «fondamento che permea l’universo intero, senziente e non senziente, ed è altresì la fine di esso». Ma «ognuno di noi è il Brahman»; da qui tolleranza benevola, fraternità con tutti gli esseri umani senza esclusione e con la natura intera, certezza nell’eternità dell’Essere. Si spiega così, nel caso del santo di Shirdi, la venerazione che ancora oggi lo circonda, da parte sia hindu sia musulmana, in India e nell’intera diaspora. E se i nazionalisti hindu più aggressivi, forti anche del potere di destra da anni al governo, storcono il naso di fronte al suo culto e alla sua spiritualità integrativa, al suo proclamarsi «né hindu né musulmano», la devozione popolare che lo venera nei templi quale manifestazione del dio Dattatreya ha la meglio nel sedare la polemica che pochi anni or sono non ha disertato nemmeno le Alte Corti statali. Contraddizione assurda certo estranea ai santi, ma ahimè non alle religioni e alle loro istituzioni.