il Fatto Quotidiano, 18 luglio 2021
Biografia di Gianni Morandi raccontata da lui stesso
Si definisce un testimone; un uomo che ha attraversato decenni con un bel po’ di fortuna. A 76 anni ancora si stupisce della sua vita, della carriera, degli incontri (“Ho conosciuto tutti, dai papi ai leader politici”), e arriva a immedesimarsi in Forrest Gump.
Come la Coca Cola piace da infinite generazioni, ma a differenza della bollicina caramellata, la sua formula non è segreta, eppure sembra semplice: “Sorrido, so che è più facile un sì di un no, guardo a quel bicchiere sempre come mezzo pieno, anche quattro mesi fa, quando mi sono ustionato: all’inizio ho pianto, poi ho capito di essere vivo e senza ustioni sul viso. Ci metto allegria”. E proprio L’Allegria è l’ultimo singolo di Gianni Morandi, con testo di Jovanotti, parole e rime talmente morandiane da risultare perfette (“Questa canzone è stato un aiuto per uscire da una situazione non semplice”).
Per Sergio Endrigo lei sorrideva pure da serio.
Può essere; quando sono partito dal paese non sapevo mai se fossi accettato o no. Il sorriso era una forma di difesa, come a dire: “Sono qui, facciamo quello che c’è da fare”. Forse me lo hanno insegnato i miei genitori.
Endrigo rideva poco…
A Roma abitavamo vicini; negli anni Sessanta la sede della Rca era sul Raccordo anulare e tutti noi, cantanti e musicisti, da Bacalov a Morricone, vivevamo nei dintorni; io e Rita Pavone avevamo 17 e 18 anni, mentre Sergio era sulla trentina. Ci guardava. E mentre sospirava aggiungeva: “Beati voi che siete giovani e sorridete”.
Vi frequentavate?
Era una specie di ritrovo, come andare in ufficio: si arrivava la mattina, si ascoltavano i nuovi brani, si discuteva, poi magari compariva Edoardo Vianello con un brano per l’estate, Gino Paoli che voleva produrre Lucio Dalla; Nico Fidenco che era una star; poi c’era il bar di Mario, non quello di Ligabue, dove ci incontravamo.
Il top del tempo.
Magari trovavamo Arthur Rubinstein, uno dei più grandi pianisti del mondo; oppure Frank Sinatra mentre incideva I Caroselli per la Perugina: 12 brani accompagnato dal suo quintetto; (ci pensa) quando è venuto non c’ero, avevo una serata in Salento, ma alla Rca avevano preparato festeggiamenti importanti. Lui invece arrivò, cantò e dopo un’ora e un quarto aveva già finito, senza riascoltarle. “Vanno bene”.
Torniamo alla disponibilità: ha accettato il selfie con medici e infermieri mentre era in barella.
In realtà anche in ambulanza; avevo una mano rovinata, con la pelle cadente, bruciature sui glutei, le ginocchia e dopo un po’ che stavamo lì, forse mi avevano dato la morfina, il ragazzo non ha resistito: “Facciamo una foto?”. “Va bene”. Una volta in ospedale sono arrivati gli altri scatti: forse non pensavano fossi grave, mentre sono stato ricoverato per 27 giorni.
Però ha detto “sì”.
È più difficile dire “no”, perché tocca motivarlo e poi ti becchi pure dello stronzo; il “sì” è facile e veloce.
Totti durante il lockdown usciva con la mascherina, stupito per la libertà…
È stato l’unico aspetto positivo; (ci ripensa) a me piace stare in mezzo alle persone, perché negli anni Settanta ho passato dieci anni quasi in anonimato, non mi filavano, e ho capito che è meglio venir guardati rispetto all’indifferenza.
Però…
Con mia moglie siamo andati in giro in mascherina, stupiti di poter entrare nei negozi, passeggiare senza venir riconosciuti; normalmente non è così: se sono solo va benissimo, ma un po’ mi dispiace quando c’è lei, perché magari le chiedono di scattare la foto. Fa parte del gioco.
Attraversa generazioni.
A volte mi passano il cellulare per gli auguri alla zia, alla nonna, al cognato che si sposa.
Si presta.
E al telefono devo convincerli che sono realmente io.
Quale tecnica adotta?
Inizio a cantare Fatti mandare dalla mamma (e la intona).
Suo figlio Marco detesta quel brano.
(Ride) È una specie di incubo, sembra che non abbia inciso altro; (pausa) tra una settimana, dieci anni o venti, quando me ne andrò, in televisione manderanno Fatti mandare dalla mamma. Chissà perché, forse ricorda un periodo felice dell’Italia, gli inizi del boom, o forse perché contiene due termini chiave: mamma e latte.
Un incubo…
Ho provato a toglierla dal repertorio, alla mia età mi sembrava assurdo cantarla, ma finito il concerto il pubblico ci restava malissimo e iniziava a intonarla; oramai è una forma di rituale talmente consolidato da aver perso senso. Quasi nessuno pensa al ragazzo che invita la ragazza a trovare una scusa per vedersi: ci sono nonne che la insegnano ai nipotini di tre anni.
L’altro classico è C’era un ragazzo…
No, poi c’è Uno su mille, tramutata in una specie di scherzo, della serie “dai che ce la fai”, soprattutto dopo l’imitazione di Ballantini (a Striscia la notizia); comunque C’era un ragazzo è la più importante…
Scritta da Migliacci.
È l’unica canzone che ho voluto; sono arrivato alla Rca che avevo 16 anni, ho inciso a 17 e i miei interlocutori erano Ennio Morricone, Migliacci, già autore di Volare, quindi una divinità assoluta, e Luis Bacalov: con personalità del genere non potevo dire neanche “beo”. Finché un giorno, in un ristorante, Migliacci mi parlò di una canzone bellissima, e per la prima volta mi imposi: “È mia”.
Venne censurata.
Dalla Rai: “Non si può cantare contro un Paese alleato”.
Non molto tempo dopo è iniziato il periodo della contestazione e molti suoi colleghi, da Leali a Dodi Battaglia, lo ricordano come uno choc. Per loro lei ne è l’emblema…
(Scandisce la data) 5 luglio 1971 al Vigorelli di Milano.
È il lodo-Morandi.
Vero; Ezio Radaelli, patron del Cantagiro, decise di portare un ospite straniero per ogni serata, artisti come Donovan o Ike & Tina Turner, fino ai Led Zeppelin. E già tre giorni prima dell’evento arrivarono i ragazzi per accamparsi sotto il palco e aspettare i Led Zeppelin.
E voi…
Eravamo preoccupati, da programma ci dovevamo esibire prima delle star straniere: chiunque saliva sul palco si beccava di tutto, io forse più degli altri, rappresentavo l’Italia degli anni Sessanta, quella da cancellare. (Silenzio) In privato avevo insistito con Radaelli: “Ho paura”. E lui: “Ma figurati”. Poi quando hanno annunciato il mio nome ho sentito un boato clamoroso. Ed Ezio: “Hai visto? E tu che avevi timore”. Peccato che era un boato all’incontrario, sottintendeva il “vai via, hai rotto le palle”, e sono stato accolto da pomodori e lattine.
Solo quattro anni prima era l’epoca dei musicarelli.
E ovunque andassi era il delirio, anche perché non esistevano le radio libere, i personaggi non si vedevano facilmente.
Rivede i musicarelli?
Li passano di continuo, e per me sono un capitale: dentro ci sono almeno 20 o 25 brani diventati immortali, una sorta di memoria cromosomica, videoclip ante litteram.
Nino Taranto la sua spalla.
Erano bravi i produttori, consapevoli che noi cantanti non eravamo grandi attori, così ci mettevano accanto professionisti come Taranto, Enrico Viarisio, Dolores Palumbo, Raimondo Vianello, Gino Bramieri e Raffaele Pisu. Era sempre la stessa storia, con il maresciallo, la ragazza e il soldatino che cantava.
Pisu le era legato.
Con lui e Bramieri avevo un rapporto particolare, poi c’era Nino Taranto, dotato di un’autorità notevole: se il regista era in difficoltà, arrivava lui e dettava la linea. Da uomo di teatro ci teneva e molte scene erano senza copione, si ipotizzava un’idea di massima e ci si affidava all’estro.
Con Germi altra storia.
Provò a coinvolgermi in un film serio, Le castagne sono buone, con un me diverso, tramutato in un giornalista cinico, non sorridente, con i baffi. Non ero credibile, non ce l’avevo dentro.
Ogni tanto vogliono tirarle fuori un presunto lato negativo, come Cugia per la trasmissione su Rai1…
Tutti hanno un po’ la mania di voler cambiare le persone, e magari i risultati arrivano a metà; Cugia si inventò scherzi feroci con me protagonista, ma il pubblico ci restava male, s’imbarazzava, non voleva crederci; (cambia tono) chiunque ha dentro qualcosa di cinico, di finzione, delle bugie.
A poker è necessario essere finti, bugiardi e cinici. Lei gioca…
Con Adriano (Celentano, ndr), Nori Corbucci, Lino Jannuzzi, Pasquale Festa Campanile, Antonello Falqui, Claudia Mori: erano i Settanta, avevo tempo libero e volevo diventare un professionista; chi gioca molto, perde molto, non esiste il vincente.
Cosa emerge al tavolo?
Un po’ il carattere delle persone: se uno è avaro, se è spericolato, se è impulsivo; non è un gioco da buoni, al tavolo è necessario sparare all’avversario e quando lui sta perdendo devi assestargli la botta finale; (ride). Chi scherzava e rideva molto era Celentano, un matto: se uno gli rilanciava contro era contento, e andava avanti pure con punti bassissimi.
Chi era il più forte?
Renato Salvatori è stato un grandissimo, non perdeva mai: ogni giorno giocava con Adriano a Teresina, testa a testa, e Adriano perdeva sempre; Renato in quegli anni, ad alcuni, ha vinto delle case.
Quante bugie hanno raccontato su di lei?
Molte non le so. Però hanno creato dei dualismi: io contro Claudio Villa o io contro Massimo Ranieri; oddio, un po’ di competizione c’era, magari i fan di uno riportavano qualcosa di negativo all’altro, e forse ha dato fastidio la mia carriera; (cambia tono) non credo di essere un grandissimo artista, mi son trovato al posto giusto nel momento giusto.
Ne è sicuro?
Non ho fatto la storia.
E chi, allora?
Modugno e Lucio Battisti. Io no. Ero lì. Sono un testimone. E in questi decenni ho conosciuto tutti, ho incontrato tanti papi, politici come Andreotti, intellettuali del livello di Pasolini, registi tipo Bertolucci, Visconti o De Sica, attori come Sophia Loren, cantanti. C’ero. Passava il treno e lo prendevo.
Messa così sembra un Forrest Gump.
La mia storia è Forrest Gump, in fin dei conti nasco dilettante, senza scuola e senza niente, poi un arbitro di pugilato mi consiglia di tentare con la boxe, invece arriva il provino con la Rca e Migliacci racconta che il nastro con la mia canzone gli cade per terra, gli si attorciglia alla caviglia e incuriosito lo ascolta. Gli piace. Mi dà Andavo a cento all’ora.
E…
Una volta lì, per imparare, ho rubato a tutti, poi un sorriso, una manata amichevole, un abbraccio, essere positivi, allegri e non rompere le palle.
Per Fo rubare è da geni.
Realmente ho rubato a Mina, Celentano, e ora a Jovanotti: con la sua voglia di rischiare, la sua energia, il desiderio di provare cose nuove; (ci pensa) avevo la quinta elementare, e quando sono andato al Conservatorio di Santa Cecilia pretendevano la terza media: così mi sono iscritto a una scuola serale. Ci vuole fortuna e pure saper prendere gli schiaffi.
Uno su mille…
Quando ho ricominciato è stata dura, tante porte chiuse in faccia: conquistavo un centimetro alla settimana, mentre nei Sessanta galoppavo per chilometri con il cambio in folle.
Massimo Ferrero racconta di essere stato il suo autista, senza patente.
Nel 1974 vendeva i programmi del mio spettacolo su Jacopone da Todi: 1.000 lire l’uno, e gli lasciavo 100 lire. Allora viveva una situazione difficile, dormiva sotto il palco; (sorride) poco tempo fa l’ho incontrato e mi ha confessato: “Lo sai che combinavo? Dichiaravo di aver piazzato tre programmi, in realtà ne avevo venduti 30 e me tenevo i sordi”.
A cosa ha rinunciato?
A diventare ciabattino come mio padre? Ad abitare a Monghidoro? No, ho avuto solo vantaggi.
Chi è lei?
Un uomo molto fortunato che sa vedere l’aspetto positivo nei momenti drammatici.
(Gianni Morandi canta in “Domani”: “Troverò parole nuove, frasi vere non troppo consumate, per arrivare da te, per riscoprire quella speranza che ancora c’è. Nascosta nel nostro cuore”).