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 2021  luglio 18 Domenica calendario

Intervista al fotografo François Halard

Il fotografo francese François Halard è noto per le sue immagini di interni e di architettura. Ha trascorso la maggior parte della sua vita professionale a New York, ma la sua base è una casa nella città romana di Arles, tra Provenza e Camargue. «Arles ha scelto me. Un giorno sono venuto a trovare un amico e ho visto questa casa. Era malandata, quando pioveva l’acqua scorreva giù per le scale, ma mi sono innamorato del suo spirito italiano - Arles nel XVIII secolo veniva chiamata la "Piccola Roma". Qui ho trovato la mia Italia, il mio posto, ricordi che non sapevo di avere. Questa casa mi ha permesso di creare un libro immaginario in cui ogni stanza poteva essere ciò che volevo e avevo sognato».
Era molto giovane quando è diventato fotografo?
«Sì. La mia educazione visiva è stata guardare la biblioteca dei miei genitori che erano designer di interni, produttori di tessuti e mobili. Ricordo Helmut Newton che visitava la nostra bella casa, che veniva spesso usata come set fotografico. Visitavo un museo e un mercatino delle pulci almeno una volta alla settimana. La mia prima foto è della mia stanza».
Chi le ha regalato la prima macchina fotografica?
«Me la sono comprata. I miei genitori non volevano che diventassi fotografo. Dai 14 anni ho lavorato durante le vacanze per comprarmi una Nikon. Ho scoperto che questa piccola scatola tra me e il resto del mondo mi permetteva di avvicinarmi alle persone. Frequentavo il liceo artistico - ero il più giovane - e lavoravo come assistente di un fotografo. Poi ho avuto un’offerta di lavoro da Decoration International, una rivista di Parigi».
Come ha iniziato a lavorare per Alex Liberman, direttore di Condé Nast a New York?
«Mi telefonò: "Vuoi venire a New York? Vorrei conoscerti". Ho detto: "Mi piacerebbe, ma sono già impegnato". "François, di solito quando chiamiamo un fotografo per fare la couture per Vogue America, nessuno dice di no". Il giorno dopo ero in volo per New York sul Concorde, con una limousine 24 ore su 24, 7 giorni su 7, Alex mi ha detto: "Posso offrirti lavoro per un certo numero di anni" e da quel momento ho passato gran parte del mio tempo a New York. Ma non ho mai detto addio ai miei amici, ho mantenuto la mia vita privata in Francia».
Ha iniziato a fotografare la moda?
«Sì, era il tempo delle top model. Ho fatto il primo servizio di Cindy Crawford. Per un ragazzo timido era divertente essere pagato per fotografare le donne più belle del mondo. Facevo anche cose più intellettuali, come viaggiare con Bruce Chatwin in Grecia o incontrare Andy Warhol e Basquiat».
La sua prima mostra è del 2003, ad Arles, su Casa Malaparte a Capri, giusto?
«Sì, dopo 15 anni era arrivato il momento di fare qualcosa di più personale, Curzio Malaparte era lo scrittore preferito di mia madre. Ho cercato di mescolare letteratura, fotografia, architettura e artisti. Malaparte è un esempio di artista, intellettuale e sostenitore dell’estetica. Anche se ha cambiato idee politiche, non ha mai cambiato quelle estetiche. Poi sono stato influenzato dal designer e architetto Carlo Mollino. Ho iniziato a fotografare la sua casa a Torino. Ne ero ossessionato».
A un certo punto si è appassionato all’artista Cy Twombly. «Molto presto. La prima opera d’arte che ho comprato, con la mia prima busta paga, era sua, "Note romane". Ero ossessionato dal lavoro di Twombly, ma ho dovuto aspettare 12 o 15 anni per fotografarlo».
Ha anche fotografato lo scrittore Bruce Chatwin. Com’era viaggiare con lui?
«Fantastico. Bruce era interessato a tutto e molto informato. Ho viaggiato con lui e il suo amico John Kasmin, il mercante d’arte inglese che rappresentava David Hockney».
Ha incontrato Andy Warhol e Basquiat a New York. Li ha fotografati?
«No, è stata una delle mie esperienze più divertenti a New York. Ricordo una cena con Basquiat, Francesco Clemente, Julian Schnabel e Andy Warhol. Mi piaceva stare con quel gruppo».
Ha conosciuto Picasso tramite il suo biografo Sir John Richardson?
«Non ho incontrato Picasso, ho incontrato John perché ho fatto un libro su di lui per il New York Times. Volevano che fotografassi la sua casa, hanno insistito perché andassi da lui in Connecticut. Avevo letto tutti i suoi libri, compresa la biografia di Picasso. Sono stato anche molto influenzato da quella grande casa che ha fatto qui in Provenza, Château de Castille».
Quali altre case l’hanno influenzata?
«Saint Laurent. Potrei fare un libro sulle case di Pierre Bergé e Yves. Anche questo è stato uno dei miei primi lavori quando nel 1982, a 21 anni, mi chiesero di fotografare la loro casa in Rue de Babylone, a Parigi. Mi colpì il fatto che mixassero stili ed epoche diverse».
Chi aveva buon gusto, Yves o Pierre?
«Entrambi. Il loro amore per la collezione che hanno costruito insieme era un legame molto forte».
Fotografa anche attori, scienziati e scrittori?
«Per lo più scrittori, pittori e artisti. Ho un forte attaccamento per Giorgio Morandi e ho realizzato un progetto nel suo studio, in una casa di campagna fuori Bologna. Quando l’ho fatto, pensavo allo straordinario fotografo Luigi Ghirri».
Ha passato il lockdown qui ad Arles e ha prodotto un libro su casa sua?
«Sì. Ero qui con mia moglie e il lockdown ci ha colto di sorpresa. E’ stata la prima volta dall’età di 18 anni che ho trascorso la maggior parte del mio tempo in un Paese, una città, una casa, è stato bizzarro. Mi hanno chiamato dal New York Times: "François, stiamo facendo un pezzo sul lockdown. Perché non fai una foto della tua cucina?". Così ho iniziato a muovermi per casa e ho fatto una Polaroid al giorno. Ho pubblicato un libro con Libraryman, 56 giorni ad Arles».
Che significato ha la casa oggi?
«È cambiato con il lockdown. La casa è il vero lusso, altro che un aereo privato: a cosa serve se non si può più viaggiare?».—
Traduzione di Carla Reschia