Specchio, 18 luglio 2021
Ritratto di John Turturro
All’inizio degli anni ’90 mi ero messo in testa di realizzare una versione cinematografica di un racconto di Isaac Bashevis Singer intitolato Taibele e il suo demone, che racconta l’incontro tra una donna idiota nel senso dostoevskjano del termine e un ladruncolo che si spaccia per un diavolo: una storia d’amore struggente, di carne e di spirito. Il produttore che avevo coinvolto nell’operazione era Roberto Cicutto, attualmente presidente della Biennale di Venezia, e gli attori a cui avevo pensato erano John Turturro e Julie Delpy. John era rimasto molto colpito dal racconto di Singer, ma era legittimamente preoccupato della mia capacità registica, specie per un progetto così delicato. Facemmo anche qualche reading, ma il progetto naufragò definitivamente dopo essersi trascinato per un paio d’anni, lasciandomi però in eredità un’amicizia che si è arricchita di tanti incontri pubblici e personali. A dire il vero, con John abbiamo gusti molto diversi e a volte ci divertiamo ad accentuare le nostre differenze, ma quando andiamo d’accordo, parliamo per ore dei film dei libri che ci entusiasmano. E spesso si tratta di opere del tutto disimpegnate come Grosso guaio a Chinatown.
A incontrarlo di persona, gli elementi che colpiscono immediatamente sono la corporatura alta e muscolosa e poi l’approccio passionale da uomo del Sud, ancorato a valori arcaici, rivissuti con lo sguardo di chi vive nel mondo nuovo. «Guai dimenticare le proprie radici - ripete - ma amo il Paese in cui sono nato». È un uomo che ama le cose semplici e concrete e una volta, scherzando, ha dichiarato: «Se fossi un criminale mi concentrerei sulle cartolerie e le pasticcerie». Sin dall’inizio John ha caratterizzato la propria carriera con scelte d’autore, diventando in breve tempo un’icona del cinema indipendente americano, riuscendo tuttavia a eccellere anche nel cinema mainstream: una delle sue interpretazioni migliori è quella di Quiz Show, nel quale interpreta Herb Stempel, l’uomo «con la faccia da radio» che denunciò il modo truffaldino con cui era gestito un celeberrimo show televisivo. Per prepararsi bene per il ruolo diventò amico di Stempel, costretto a perdere perché non aveva nessun appeal nei confronti degli sponsor della trasmissione, che invece amavano Charles van Doren, patrizio e wasp, interpretato da Ralph Fiennes. In quell’occasione John interpretò il personaggio di un ebreo, cosa che gli è accaduta frequentemente, a cominciare da Barton Fink, per non parlare della Tregua, in cui immortala Primo Levi. Quest’ultima interpretazione è quella probabilmente di cui è maggiormente orgoglioso, e nel lungo periodo di preparazione si immerse nella lettura dei testi dello scrittore italiano, che considera tra i più grandi del novecento: «È impossibile non rimanere conquistati e commossi da quello che scrive, è la cosa più mirabile e che si esprime con un tono così quieto».
Non è meno entusiasta quando parla di Francesco Rosi, che definisce «uno dei grandi maestri del cinema mondiale: aver lavorato con lui è uno dei grandi privilegi della mia carriera». Gli elementi di semplicità e concretezza, che si mescolano con la scelta di dedicare la propria vita allo spettacolo, sono leggibili nel suo codice genetico: John è nato a Brooklyn 64 anni fa da una donna siciliana che si dilettava a cantare il jazz, mentre il padre, originario di Giovinazzo, in Puglia, era immigrato negli Stati Uniti a sei anni, e prima di arruolarsi in marina aveva lavorato come falegname e operaio, esperienze che John racconterà nel suo bel debutto alla regia, Mac.
Il suo primo ruolo è poco più che una comparsata in Toro Scatenato di Martin Scorsese: nonostante nel film non abbia neanche una battuta, è orgoglioso di aver partecipato in qualche modo a quel capolavoro. Una delle caratteristiche del suo lavoro di attore è quella di lasciare sempre una traccia indelebile, anche quando interpreta un piccolo ruolo: è così per esempio in Vivere e morire a Los Angeles di William Friedkin, dove è coinvolto in un memorabile inseguimento. Nel 1987, con Five Corners, inizia a collaborare con Spike Lee, che lo scritturerà altre otto volte: si tratta di una delle collaborazioni più affascinanti del recente cinema americano. Non meno importante è quella con i fratelli Coen, con i quali, oltre a Barton Fink, ha realizzato Crocevia della morte, Fratello dove sei? e soprattutto The Big Lebowski, dove immortala uno dei personaggi più iconici ed esilaranti degli ultimi anni: Jesus, improbabile campione di bowling, probabilmente pedofilo.
Il rapporto viscerale con il nostro Paese, e in particolare con il meridione, è testimoniato da Passione, il film musicale che ha dedicato alla canzone napoletana: un altro suo motivo di orgoglio è quello di avere anche la cittadinanza italiana. Negli ultimi anni ha alternato sempre più spesso l’attività di regista a quella di attore, cimentandosi anche in adattamenti americani da Eduardo de Filippo, altro autore italiano che ama profondamente. «In molti film, i registi non ti parlano molto, limitandosi a dare indicazioni semplici come "più veloce o più lento". Al limite fanno piccoli aggiustamenti, perché tu hai iniziato in maniera neutra: la realtà è che gran parte delle volte finisci per fare tu il regista». Ha rifiutato decine di ruoli da cattivo, e non ha mai avuto alcuno snobismo nei confronti della televisione: come testimonia la sua interpretazione nella nuova versione del Nome della Rosa, ma forse il suo ruolo più memorabile è quello di The Night of. Ripercorrendo la sua carriera, risulta evidente come riesca ad eccellere sia nei personaggi «over the top», cioè estremi, che in quelli caratterizzati invece da una profonda calma interiore. Quest’ultimo elemento si riflette nella scelta di vivere lontano dal cuore della città: abita infatti in una elegante brownstone di Brooklyn e, nonostante il lavoro lo porti quasi quotidianamente a Manhattan, non cambierebbe per nulla al mondo il quartiere in cui vive, che considera, con orgoglio, una vera e propria città.