Specchio, 18 luglio 2021
Biografia di Al Bano Carrisi raccontata da lui stesso
Al Bano Carrisi ha 78 anni, è sulla breccia artistica da oltre mezzo secolo, ha esplorato suo malgrado gli abissi che interrogano lo stare al mondo di ciascuno. Logico che tutte le domande importanti siano già state fatte, compresa quella che butto lì senza troppe aspettative: c’è per caso qualcosa che…? «No» risponde, comprensivo, «penso proprio che mi abbiano già chiesto tutto». Pesco, allora, dai ricordi. Sanremo 1996, lui che torna al Festival e per la prima volta in quindici anni è di nuovo un solista. Quando si stende sul palco dell’Ariston, e lo bacia, chiunque vede che non è teatro, ma l’impulso sincero di un uomo scorticato dalla vita. È la mia vita è infatti il titolo della canzone da brividi che Maurizio Fabrizio gli ha cucito addosso; e quella è la sera in cui tutti siamo pazzi di Al Bano, persino quelli che non l’hanno mai apprezzato. «Soprattutto loro. Li rivedo come fosse oggi, uno a uno, in piedi ad applaudire».
È la mia età che se ne va / e quanto amore via con lei… Lì sì che c’è la domanda delle domande: come si trattiene tutto l’amore che il tempo e la vita ci portano via? Lei ha trovato una risposta?
«L’amore è come un uccello selvatico che ha sempre bisogno della sua libertà. Solo un cacciatore può pensare, disgraziatamente aggiungo, di uccidere il volo dell’amore».
Quindi la risposta è: bisogna lasciarlo andare.
«C’è però anche il volo umano, di cui tenere conto. Le cose cambiano un po’ quando entra in gioco la volontà: vuoi qualcosa e fai di tutto per averla, per sentirti in pace con te stesso. Conta molto la storia dalla quale provieni, l’esempio famigliare che hai avuto. Io sono il figlio d’un grandissimo amore, perciò…».
Ha detto più volte: mi piacerebbe che Romina e Loredana vivessero in armonia tra di loro, negli ultimi anni che mi restano.
«Sì, ma è rimasto un sogno».
In fondo è un po’ il sogno del patriarca, o del maschio italiano medio: tenere tutto insieme, gli affetti, le diverse famiglie…
«È sempre meglio stare con, piuttosto che contro, non crede? Io la penso così, bisogna lavorare per unire gli anelli anziché spezzare la catena».
Ci sta ancora lavorando?
«Non posso: non ci sono i presupposti da parte loro».
È un dolore?
«Diciamo un’amarezza».
Di Ylenia ne vuole parlare, o preferisce non farlo?
«No, grazie. Ogni volta è come riaprire una ferita».
In realtà mi piacerebbe parlare con lei di religione.
«Ah, quello sì, molto volentieri! La fede è il mio mare aperto e limpido, il mio cavallo alato».
Come si è modificata nel tempo?
«I miei genitori m’hanno trasmesso fin da bambino la certezza della fede, ma all’inizio sei sempre in una fase d’imposizione. Più avanti scatta il desiderio di conoscere quello che hai già vissuto, o almeno per me è stato così. Ho conosciuto un’esperienza che chiamerei esplosione della fede, scoprendo che credere era davvero la cosa migliore che avrei potuto fare. Quando hai fede, non tremi mai».
Anche i più santi talvolta hanno tremato.
«Negli anni Novanta a me è successo quasi tutto: mia figlia Ylenia, la fine del matrimonio… Lì, è vero, ho attraversato una fase di dubbi e di ribellione, ma era una corazza di rabbia che mi faceva stare sempre peggio. Finché, pian piano, ci sono arrivato. Dio ci ha fatto capire una cosa importante: anche lui ha perso un figlio, perciò chi sono io per non accettare la legge del dolore?».
Nel suo libro Io ci credo racconta che un giorno Romina spostò una Madonna dal giardino di casa vostra per metterci la statuetta di Ganesha, divinità induista dalla testa d’elefante. Fu il punto di rottura?
«No, eravamo in crisi già da tempo, ma quel gesto lo ricordo come se fosse ora. Inaccettabile. Sostituire la Madonna con Ganesha, per me è disumano. Sia ben chiaro, io ho il massimo rispetto per le religioni diverse dalla mia».
Ha esplorato un po’?
«Certo, ma sento il cristianesimo più vicino agli esseri umani. Già il simbolo della croce, se ci pensa, ti mette al cospetto di una verità che riguarda tutti gli uomini: orizzontale e verticale, vita e morte. La croce ci prepara al sacrificio, al fatto che le cose possono andare diversamente da come le abbiamo sognate».
Lei ha incontrato diversi Papi. Sensazioni?
«Ho avuto il privilegio di cantare sette volte per Giovanni Paolo II e ogni volta è stata un’iniezione di energia spirituale. Al primo incontro in Vaticano mi chiese di leggere dal Vangelo e cominciai a tremare come una canna al vento. Lui mi faceva sentire sempre il benvenuto, era come se srotolasse un tappeto sul quale salire per avvicinarsi di più. Ho un gran ricordo del nostro incontro allo stadio Maracanà di Rio Janeiro: già la situazione era forte, intonavo Volare e in 150 mila rispondevano oh oh… finché con Romina cantammo il nostro brano dedicato al Papa e lui con la mano ci fece il gesto: venite venite… Ci accarezzò, ci baciò, e sa la cosa incredibile? Sulla sua testa e sulla mia sono comparse due aureole, effetto delle luminarie che stavano sul palcoscenico. Quando vedo quelle fotografie, mamma mia… Successivamente ho incontrato anche il grande Benedetto XVI. Un intellettuale straordinario, anche se penso che non avesse la caratura umana necessaria a un Papa».
La mise un po’ a disagio?
«Eravamo in tanti artisti, disse: "Siete i cantori di questa sera? Allora vi do la mia benedizione". Poi lasciò la sala, lui non ascoltava mai la musica leggera, non aveva interesse».
In Vaticano c’è il cardinale Ravasi a manifestare interesse per il pop e la musica leggera. Ha avuto occasione di conoscerlo?
«No, e mi piacerebbe moltissimo. Sento nel suo raccontare una grande dolcezza».
Papa Francesco le piace?
«Sì, è un bel Papa e un bel francescano, sta facendo un importante lavoro di moralizzazione della Chiesa. Vorrebbe che Romina e Al Bano andassero da lui a cantare Felicità, mi dicono. Non vedo l’ora. Se chiama, vado di corsa».
Che tipo di musica apprezza, oltre alla sua?
«Sa cos’è la meraviglia della musica? Con quelle sette note di cui è fatta, ogni artista è riuscito a costruire un mondo, un po’ come Dio con la creazione. Esiste il deserto, la zona dei ghiacci, quella temperata, una straordinaria varietà. E poi ci sono Beethoven e Bach che hanno lasciato un’impronta enorme, Puccini e Verdi, e pure Ray Charles: quando l’ho ascoltato per la prima volta è stato come scoprire nuove terre… Anche Modugno e Carosone hanno lasciato un’impronta. E, pur consapevole di non poter essere accostato ai grandi della musica leggera, nel mio piccolo, io penso d’essermi espresso bene con quelle sette note».
Che ne pensa dell’ultimo Sanremo?
«Si sentiva il peso del Covid, ma i Maneskin mi sono piaciuti: ho visto in loro un po’ di Rolling Stones; Amadeus e Fiorello li ho trovati grandi e sono felice per la consacrazione di Orietta Berti».
Dicono che lei abbia un rapporto speciale con Putin.
«Sono un suo ammiratore. Ho avuto il privilegio di conoscerlo nel 1986, quando facemmo con Romina un tour tra Leningrado - allora si chiamava così - e Mosca, 36 serate tutte sold out. Putin, che allora era nel Kgb, venne a sentirci e la mattina dopo ci fece visita in albergo. Cantai poi per lui nel 2005, ricordo che quella sera intorno a un grande tavolo rotondo c’erano tutte le personalità del mondo russo, i presidenti delle province, i rappresentanti delle religioni, i copti, i cristiani, i musulmani. Ho pensato: ma che bella realtà! Dopo il concerto andai a salutare Putin e Eltsin. Posso definirlo un momento indimenticabile della mia carriera».
Altri momenti indimenticabili?
«Passando dalla grande Russia alla piccola Malta, le racconto un aneddoto divertente: a un concerto in presenza dell’allora presidente Dom Mintoff attacco a cantare Il 13 dicembreee… Santa Luciaaa… e tutta la sala scatta in piedi. Io, tra me e me: pensa te quanto successo ha avuto a Malta questa canzone… Ho saputo dopo che il 13 dicembre era il giorno in cui i laburisti avevano vinto le elezioni. Ci fu poi la volta dei 100 mila di Atene. I greci erano ancora sotto dittatura militare e avevano saputo che avrei cantato Teodorakis. Fu come un’esplosione, c’era un’orchestra di ottanta musicisti e non riuscivo a sentire una nota tante erano le grida d’entusiasmo».
Si gira il mondo cantando e s’incontra la Storia. Con l’Ucraina ha poi fatto pace?
«Mi misero nella lista nera perché parlavo bene di Putin, ma avevo semplicemente risposto a una domanda, senza nessuna intenzione di fare un gesto contro l’Ucraina. Ho spiegato la mia verità all’Ambasciatore. Comunque anche in Azerbaigian mi avevano messo al bando. Non gradivano che avessi cantato in Armenia, però io del Nagorno Karabakh non ne sapevo proprio niente. Perché mi fate questo, ho detto, noi artisti siamo un po’ come i medici, andiamo dove ci richiedono, cantiamo e ripartiamo. Non c’è nessuna intenzione politica».
Veramente oggi molti artisti usano la loro popolarità per lanciare messaggi, per esempio in difesa dei diritti.
«Di questa cosa bellissima che sono i diritti, noi ne parliamo in un Paese dove ci è permesso farlo. Credo si debba entrare sempre con rispetto nelle realtà che conosciamo poco e sono diverse dalla nostra».
Allora la riporto in Italia. È a favore della legge Zan?
«Sì, detesto gli insulti e chi insulta i gay e le lesbiche. L’omosessualità è un fatto naturale, se li attacchi non stai andando contro quei signori, ma contro Mamma Natura, che va rispettata sempre».
A proposito di Mamma Natura, cos’ha ispirato il suo ritorno alla terra?
«All’inizio non è stata una scelta, l’ho fatto per amore. Romina diceva che Cellino e la Puglia le ricordavano la California. Se n’era innamorata. Io allora conoscevo bene la fatica della campagna, ma non sapevo niente della California. Pensavo: le passerà. Lo speravo. Invece sono stato io a scoprire la grande bellezza della terra dalla quale ero fuggito. Oggi di me posso dire che il cantante sta al contadino come il contadino sta al cantante». P.S. Quando stiamo per salutarci, scopro che la domanda inedita - inedita per ragioni puramente temporali - esiste, e siccome io non l’ho fatta, Al Bano l’ha reclamata: «Posso approfittare dell’intervista per rispondere a un attacco che ho ricevuto?». Prego. «Attraverso i giornali, il Vescovo di Andria ha mandato un messaggio contro di me: la chiesa non è un palcoscenico. Vorrei dire la mia. Sono stato invitato da un sacerdote a cantare l’Ave Maria di Bach-Gounod in una chiesa bellissima e l’ho fatto. Non voglio certo mancare di rispetto a un Vescovo, ma Sant’Agostino diceva che chi canta prega due volte, e io quel giorno ho pregato due volte. Forse persino di più».