Specchio, 18 luglio 2021
L’Asia va alla guerra del cinema
Sangue chiama sangue!», grida Len Feng, un eroico Rambo cinese che tenta di salvare un gruppo di connazionali e africani dall’avidità assassina dei criminali occidentali. In un corpo a corpo a colpi di arti marziali, pistolettate, coltellate, calci, pugni, gomitate e ginocchiate prova a domare il bieco mercenario americano Big Daddy. Cazzotti sui fianchi, blocchi e prese, testate e colpi proibiti fanno invece finire Len Feng spalle a terra. «La gente come te sarà sempre inferiore a gente come me. Abituati!», lo sfotte Big Daddy, mentre avvicina il coltello alla giugulare dell’eroe. Len Feng si strappa una pallottola acuminata che teneva legata al collo e con essa pugnala il mercenario americano. Dopo abbondanti zampillii di sangue, Len Feng finisce lo «sporco gringo» sussurrandogli all’orecchio: «That’s fucking history», e cioè «quello è il fottuto passato». Questa è la scena più significativa del blockbuster patriottico del 2018 Wolf Warrior II, fortunato filone cinematografico cinese che infonde orgoglio nazionalista nelle masse cinesi in risposta a oltre mezzo secolo di propaganda hollywoodiana. Oggi, la serie di film d’azione del "Lupo Guerriero" è diventata il soprannome ai "falchi" di Pechino che spingono il governo verso posizioni aggressive con la "Diplomazia Wolf Warrior".
Con la strategia di prestiti per lo sviluppo della "Belt & Road", la Cina combatte una battaglia di interessi economici mondiali. Invece, con i giochi navali nel Pacifico, i voli dei caccia da combattimento sui cieli di Taiwan, le basi in Africa e le isole artificiali nei mari delle Filippine, Pechino porta avanti una sfida militare. E da qualche anno la sfida tra Cina e Occidente si sviluppa anche nella propaganda cinematografica, ancor di più in questo mese in cui il premier Xi Jinping celebra con toni quasi minacciosi i 100 anni del Partito Comunista cinese.
Peccato che nel rispondere alle icone dei vari Rambo e dei vari G.I. Joe della propaganda americana, la Cina proponga un’identica mascolinità tossica, anche se con caratteristiche cinesi. Film come Operation Red Sea di Dante Lam o il recente blockbuster nazionalista 800 eroi di Guan Hu, assomigliano a pubblicità della marina o dell’esercito, il cui obiettivo non è solo gonfiare un bellicoso orgoglio nazionale, ma anche ridisegnare l’idea di maschio, come ammette Wu Jing, che oltre ad essere il regista dei film Wolf Warrior ne è anche l’interprete principale. «La Cina non ha ancora prodotto un vero uomo come Tom Cruise e Sylvester Stallone, in cui il pubblico si possa identificare, perché la nostra industria del cinema è stata sopraffatta dai ragazzi carini coreani e giapponesi», dice Wu, snobbando superstar come Jackie Chan o Bruce Lee. «Invece i miei film devono ispirarci a diventare veri uomini e incoraggiare le donne ad andare con i veri uomini. Wolf Warrior II è una rivoluzione nella cultura sessuale cinese». Insomma, la mascolinità tossica come prova di vigore identitario e nazionalistico.
Così ora Pechino controlla sempre più come la Cina racconta se stessa ai propri cittadini, lanciando un messaggio al mondo: siamo vincitori e pronti a tutto per difendere i confini e, se possibile, espanderli. Anche un’anima poetica come Zhang Yimou, regista dell’indimenticabile Lanterne Rosse, ha dovuto piegarsi alle pressioni imposte da Pechino e dal contesto pandemico-patriottico: l’arte che si genuflette a formazione ideologica dei cittadini. Per questo il suo avvincente Cliff Walkers, appena presentato al Far East Film Festival di Udine, è comunque uno spy thriller patriottico che esalta i valori del sacrificio in nome della nazione di un gruppo di agenti cinesi in lotta contro i giapponesi: lo vuole il Partito e lo vuole il botteghino, nutrito dai rigurgiti del nazionalismo ispirati dalla pandemia. I film di propaganda in Cina l’anno scorso hanno difatti incassato un quinto del totale, superando i film importati, che sono scesi al 16% del mercato dalla media del 37 % degli anni precedenti.
Ma il modo in cui il cinema racconta l’Asia non si limita né alla Cina né al patriottismo. Dagli anni Settanta a oggi, almeno tre nostre generazioni sono cresciute con le serie animate giapponesi di Heidi, Remy, Goldrake e i film sognanti di Hayao Miyazaki, ma prima ancora con i classici di Ozu e di Kurosawa, per passare al cinema d’azione di Hong Kong e alla Corea dei film di Kim Ki Duk e atterrare infine al vincitore dell’Oscar come miglior film con Parasite di Bong Joon-ho, ospite speciale quest’anno al Festival di Cannes, dove aveva già vinto la Palme d’Or. Quella raccontata dal cinema, dai film animati e oggi dalle serie tv è spesso un’Asia onirica e violenta, ma anche romantica e mistica, a parte quella delle arti marziali o dei film danzanti, che sono sempre tutte narrazioni politiche, rappresentand o sempre le tendenze sociali dei popoli.
Ed è infatti così anche per l’India di Bollywood, mondo estroverso e fantasioso che convive con il neorealismo dell’indimenticabile Trilogia di Apu di Satyajit Ray. Però, negli ultimi dieci anni, l’India ha prodotto anche Haider, coraggioso Amleto ambientato tra le torture del Kashmir, e alcune serie Neflix che parlano di crimine, ma anche di società, di fondamentalismo, di ambizioni piccolo borghesi come Leila, Sacred Games, Serious Men e White Tiger. Ma è anche l’India dei popolari film che nutrono l’orgoglio nazionalista o la pubblicità militarista travestita da lungometraggio. Ciò che il cinema asiatico sembra raccontarci in questa fase è non solo come "l’industria dei sogni" sullo schermo ci insegna le molteplicità di un’altra cultura, ma anche come queste culture scelgono di rappresentarsi non sempre spontaneamente, ma anche sotto un influsso che arriva dall’alto, poiché l’arte di massa viene ormai piegata alla politica e al mercato, ripiegandosi in se stessa, diventando più di frequente strumento al servizio dei giochi di potere invece di esserne un guardiano critico.
Ma è tra le pieghe di generi considerati minori, come ad esempio l’horror, che si nascondono delle sorprese nel modo in cui l’Asia rappresenta la propria società nel cinema, come ad esempio il film thailandese presentato in anteprima internazionale sempre al Feff di Udine, The Maid. Si tratta di un lungometraggio di scarso valore artistico, che si apre con ridicole scene dove una scimmia di pelouche si anima con gli occhi LED rossi per spaventare la cameriera in una casa dei ricchi. Ma sarà poi proprio la cameriera, in un gioco di vendette, (SPOILER) ad avvelenare e sgozzare tutti gli invitati ricchi della villa: un gesto di ribellione rivoluzionaria che nasconde sotto le pieghe dell’horror la voglia di sovvertire il sistema in un luogo sempre più repressivo e iniquo quale è oggi la Thailandia e sono sempre più Paesi dell’Asia.