La Stampa, 18 luglio 2021
Papa Francesco e il cinema
Jorge Mario Bergoglio definisce il cinema neorealista «scuola di umanesimo». Da bambino a Buenos Aires frequentava le sale di quartiere, dove i film del neorealismo hanno costruito una cultura che il Papa ha arricchito nel tempo, e di cui si rilevano numerose tracce nel suo magistero: spesso fa riferimento a questa o quella pellicola in discorsi, omelie ed encicliche. E ora nuove riflessioni di Francesco - raccolte in un’intervista sul cinema di cui pubblichiamo un’anticipazione - guidano l’analisi sviluppata nel libro Lo sguardo: porta del cuore. Il neorealismo tra memoria e attualità (in uscita in questi giorni per Effatà Editrice, pp. 104, € 14) di monsignor Dario Edoardo Viganò, Vice Cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze e delle Scienze Sociali della Santa Sede. Il volume contiene anche opere inedite dell’artista Walter Capriotti che reinterpretano alcuni capolavori del neorealismo.
Per il Pontefice si tratta di una stagione cinematografica che continua a essere «importante strumento» per una decisiva «catechesi di umanità». Nel colloquio racconta che «in molte occasioni e in tanti Paesi diversi, i miei occhi hanno incontrato quelli dei bambini, poveri e ricchi, sani e malati, gioiosi e sofferenti». Essere guardati dagli occhi dei piccoli è un’esperienza «che ci tocca fino in fondo al cuore e che ci obbliga anche a un esame di coscienza». E il cinema neorealista «ha universalizzato questo sguardo dei bambini, che è molto di più di un semplice punto di vista». Così il Papa chiede: «Che cosa facciamo perché i bambini possano guardarci sorridendo», con «fiducia e speranza? Che cosa facciamo perché questi occhi non vengano turbati e corrotti?».
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Nel suo magistero non di rado fa riferimento al cinema: talvolta la sentiamo citare questo o quel film. Da dove nasce questo suo particolare rapporto col cinema?
«Devo la mia cultura cinematografica soprattutto ai miei genitori. Quando ero bambino, frequentavo spesso il cinema di quartiere, dove si proiettavano anche tre film di seguito. Fa parte dei ricordi belli della mia infanzia: i miei genitori mi hanno insegnato a godere dell’arte, nelle sue varie forme. Il sabato, ad esempio, con la mamma, insieme ai miei fratelli, ascoltavamo le opere liriche che trasmettevano alla Radio del Estado (oggi Radio Nacional). Ci faceva sedere accanto all’apparecchio e prima che cominciasse la trasmissione ci raccontava la trama dell’opera. Quando stava per iniziare qualche aria importante ci avvertiva: "State attenti, questa è una canzone molto bella". Era una cosa meravigliosa. E poi c’erano i film al cinema, per i quali i miei applicavano lo stesso metodo: come facevano con le opere, ce li spiegavano per farci orientare».
Ed è in questo contesto che è nato anche il suo rapporto con il neorealismo italiano.
«Sì, tra i film che i miei vollero assolutamente che noi conoscessimo c’erano proprio quelli del neorealismo. Tra i dieci e i dodici anni credo di aver visto tutti i film con Anna Magnani e Aldo Fabrizi, tra cui Roma città aperta di Roberto Rossellini che ho amato molto. Per noi bambini in Argentina, quei film sono stati molto importanti, perché ci hanno fatto capire in profondità la grande tragedia della guerra mondiale. A Buenos Aires la guerra l’abbiamo conosciuta soprattutto attraverso i tanti migranti che sono arrivati: italiani, polacchi, tedeschi… I loro racconti ci hanno aperto gli occhi su un dramma che non conoscevamo direttamente, ma è anche grazie al cinema che abbiamo acquisito una coscienza profonda dei suoi effetti».
Dove sta l’attualità di questi film?
«I film del neorealismo ci hanno formato il cuore e ancora possono farlo. Direi di più: quei film ci hanno insegnato a guardare la realtà con occhi nuovi. Quanta necessità abbiamo oggi d’imparare a guardare! La difficile situazione che stiamo vivendo, segnata a fondo dalla pandemia, genera preoccupazione, paura, sconforto: per questo servono occhi capaci di fendere il buio della notte, di alzare lo sguardo oltre il muro per scrutare l’orizzonte».
Ma in che modo questo cinema può insegnarci a guardare?
«Quello neorealista è uno sguardo che provoca la coscienza. I bambini ci guardano è un film del 1943 di Vittorio De Sica che amo citare spesso perché è molto bello e ricco di significati. In tanti film lo sguardo neorealista è stato lo sguardo dei bambini sul mondo: uno sguardo puro, capace di captare tutto, uno sguardo limpido attraverso il quale possiamo individuare subito e con nitidezza il bene e il male».
A questo proposito viene alla mente un altro grande maestro del cinema italiano come Federico Fellini, che lei ama spesso citare, per la sua capacità di restituire lo sguardo sugli ultimi.
«Sì, La strada di Fellini è il film che forse ho amato di più. M’identifico molto in quel film, in cui troviamo un implicito riferimento a san Francesco. Fellini ha saputo donare una luce inedita allo sguardo sugli ultimi. In quel film il racconto sugli ultimi è esemplare ed è un invito a preservare il loro prezioso sguardo sulla realtà. Penso alle parole che il Matto rivolge a Gelsomina: "Tu sassolino, hai un senso in questa vita". È un discorso profondamente intriso di richiami evangelici. Ma penso a tutto il percorso di Gelsomina: con la sua umiltà, con il suo sguardo pienamente limpido, riesce ad ammorbidire il cuore duro di un uomo che aveva dimenticato come si piange. Questo sguardo puro degli ultimi è capace di seminare vita nei terreni più aridi. È uno sguardo di speranza, che sa intuire la luce nel buio: per questo va custodito».
Come possono quei film parlare anche al nostro presente?
«Guardare non è vedere. Vedere è un atto che si compie solo con gli occhi, per guardare occorrono gli occhi e il cuore. I film neorealisti non sono dei documentari che restituiscono una semplice registrazione oculare della realtà; la restituiscono sì, ma in tutta la sua crudezza, attraverso uno sguardo che coinvolge, che muove le viscere, che genera compassione. È la qualità dello sguardo a fare la differenza, allora come oggi. Quello neorealista non è uno sguardo da lontano, ma uno sguardo che avvicina, che tocca la realtà così com’è, che se ne prende cura e, dunque, che mette in relazione. La capacità di acquisire uno sguardo che sa mettere in relazione è, dunque, la chiave per una comunicazione autentica e lo è tanto più in questa stagione difficile della pandemia, in cui il contatto virtuale predomina spesso sul contatto reale».
Se dovesse, dunque, indicare qual è la qualità più importante dello sguardo neorealista?
«Direi quella di aver saputo guardare non solo dentro la storia, ma anche dentro il cuore degli uomini. In questo sta la sua catechesi di umanità: valida allora e valida oggi. Uno sguardo che tocca la realtà, ma anche il cuore, è uno sguardo che la realtà la trasforma. Non è uno sguardo che ti lascia dove sei, ma è uno sguardo che ti porta su, che ti solleva, che ti invita ad alzarti. Il cinema neorealista ha avuto questo potere, proprio della grande arte, di saper cogliere nell’inverno ciò che era già primavera. È uno sguardo che nelle tenebre custodisce il gusto e il senso della luce. È uno sguardo di svelamento: là dove noi non vediamo che un limite, l’occhio del poeta e dell’artista costruisce passaggi, apre brecce negli sbarramenti, scorge i segni di una realtà più bella e più grande. Abbiamo tanto bisogno di questo sguardo. Lo sguardo del neorealismo ha abbracciato per intero e fino in fondo la realtà drammatica del suo tempo, ma così facendo ha posto le coscienze al setaccio, ha preparato un campo ripulito per poter di nuovo piantare. È questa la lezione che possiamo apprendere dalla scuola di umanesimo del neorealismo: uno sguardo che provoca la coscienza, che mette in relazione, che fa germogliare. Una pedagogia per gli occhi che cambia il nostro sguardo miope avvicinandolo allo sguardo stesso di Dio».
Oltre a fornire una pedagogia dello sguardo il cinema, in generale, ha anche un grande valore sociale…
«Il cinema è stato ed è un grande strumento di aggregazione. Soprattutto nel dopoguerra italiano ha contribuito in maniera eccezionale a ricostruire il tessuto sociale con tanti momenti aggregativi. Quante piazze, quante sale, quanti oratori, animati da persone che, nella visione del film, trasferivano speranze e attese. E da lì ripartivano, con un sospiro di sollievo, nelle ansie e difficoltà quotidiane. Un momento anche educativo e formativo, per riconnettere rapporti consumati dalle tragedie vissute. Anche oggi, guardando oltre le difficoltà del momento, il cinema può mantenere questa capacità di aggregare o, meglio, di costruire comunità. Senza comunione, all’aggregazione manca l’anima. È chiaro che molto dipende dalla qualità dello sguardo che il cinema propone, ma anche dalla qualità dello sguardo degli stessi spettatori. La visione di un’opera cinematografica può aprire diversi spiragli nell’animo umano. Il tutto dipende dalla carica emotiva che viene data alla visione. Ci possono essere l’evasione, l’emozione, la risata, la rabbia, la paura, l’interesse… Tutto è connesso all’intenzionalità posta nella visione, che non è semplice esercizio oculare, ma qualcosa di più. È lo sguardo posto sulla realtà. Lo sguardo, infatti, rivela l’orientamento più diversificato dell’interiorità, perché capace di vedere le cose e di vedere dentro le cose».
Che valore ha per lei il cinema nella dinamica tra storia e memoria? E quanto è importante custodire questa «memoria per immagini»?
«Questo è un discorso decisivo per il futuro. Nella mia esperienza di pastore ho attinto diverse volte alla "memoria per immagini": in Amoris laetitia faccio riferimento al film Il pranzo di Babette, di Gabriel Axel (1987), per spiegare l’importanza della "gioia che deriva dal procurare diletto agli altri"; in Fratelli tutti ci sono ben tre riferimenti al film Papa Francesco – Un uomo di parola, di Wim Wenders (2018). Il cinema insegna a creare e custodire la memoria, attraverso uno sguardo che sa tradurre e decifrare il messaggio. Penso anche alla densità di memoria che le immagini della Statio Orbis del 27 marzo 2020 hanno sedimentato nel cuore di moltissime persone. In questo senso, anche per la Chiesa, la dinamica storia-memoria trova nel cinema un riferimento importante. Guardiamo al neorealismo: l’arte cinematografica è riuscita a illuminare la trama dei fatti per svelarne il senso profondo. Anche per questo è importante ritornare a quei film non con nostalgia, ma con impegno per il futuro. Dobbiamo essere bravi custodi della "memoria per immagini" per trasmetterla ai nostri figli, ai nostri nipoti. Qui credo che il discorso si possa allargare oltre ciò che propriamente chiamiamo cinema, per includervi le fonti audiovisive nel loro complesso quali preziose testimonianze del passato». —