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 2021  luglio 18 Domenica calendario

Staino parla di Cuba

Sergio Staino, quante volte è stato a Cuba?
«Quattro o cinque. Dopo la laurea in architettura nel 1968 mi offrirono un lavoro all’Avana e per un momento pensai di trasferirmi.
All’epoca vedevo tutto con gli occhiali rosa».
Ricorda la presa del potere?
«Nel 1959 avevo diciannove anni.
Castro girava in camicia militare, circondato dal Che, e sprigionava fantasia, sberleffo, libertà. La sua era una rivoluzione che rompeva il perbenismo comunista al quale eravamo fin lì abituati. Sedusse una generazione».
E adesso?
«Sono stupito del ritardo con cui è esplosa la protesta. Nei Paesi dell’Est scoppiò trent’anni fa, qui soltanto ora. Credo dipenda dal fatto che Cuba ha una storia originale. Non è una rivoluzione importata di tipo leninista, ma fu il rovesciamento di una dittatura sanguinaria com’era quella di Fulgencio Batista. L’obiettivo era la democrazia».
La sinistra ha chiuso gli occhi sulla miseria in cui versa la popolazione?
«Nei miei primi viaggi ero colpito dalla presenza della polizia ad ogni angolo, ma sorvolavo. Agli inizi degli anni Ottanta l’Unità mi mandò a fare un reportage a fumetti. Venni invitato da delle suore italiane, che mi suggerirono di dire al tassista di lasciarmi a qualche isolato di distanza dal loro edificio. “Perché?”
domandai. “Qui tutto è controllato”.
Che mondo vedeva uno straniero?
«I cittadini del posto non potevano frequentare i locali e gli alberghi, ma all’interno era pieno di ragazze che si prostituivano, circondate da protettori che corrompevano metà hotel. Il potere castrista sapeva, naturalmente, gli andava bene così. Poi entravi nelle librerie e trovavi i libri con intere parti tagliate».
Lo documentò?
«No, nella mia striscia descrissi i giovani che tagliavano la yuca e raccontai dei medici che Castro mandava in Senegal a curare gli africani».
Indossava ancora gli occhiali rosa?
«Tempo dopo andai a trovare una collega dell’agenzia Ansa , che mi rivelò che le pagelle scolastiche erano delle schedature per spiare le famiglie. Questa giornalista poi riuscì ad espatriare, a New York, dove conobbe un cronista italiano che sposò a Firenze. Quando la rividi in Italia le chiesi: “E perché hai lasciato Cuba?” “Cuba non c’è più”, rispose».
Quando cominciò a capire?
«Una sera ero a cena dal regista Tomás Gutiérrez Alea, quello di
Fragola e cioccolato . Gli facevo continuamente delle domande. E lui, e gli altri suoi ospiti, cambiavano discorso. A un certo punto si spazientì: “Ma voi italiani avete la mania di parlare di politica!”. Dopo mezzanotte il salotto si svuotò. Gutiérrez mi prese in disparte: “Ora che se ne sono andate le spie del regime ti posso rispondere: “Potevamo essere il paradiso, e invece siamo in mano all’esercito».
Quando reagì?
«Nel 1994 il regime fucilò chi provava a fuggire a Miami. Per anni li avevano fatti partire, denigrandoli. Quella volta li fecero tornare indietro, i balseros .
Disegnai un manifesto per i Democratici di sinistra contro le fucilazioni e finii nella lista nera dell’ambasciata. Non mi hanno più fatto entrare. Marco Rizzo disse che avevo nostalgia di Batista. Miserabile».
Che cosa ne ricava?
«Tutte le rivoluzioni socialiste culminano in una dittatura. Del resto quando tagli le parti dei libri perché “questo le masse non lo possono capire” segni l’inizio della fine di ogni rinnovamento».
Non poteva che finire così?
«Mi vengono in mente le parole di Bertolt Brecht: “Noi che volevamo apprestare il terreno alla gentilezza non potemmo essere gentili”. Ricorda in Albania? Il primo bar che hanno aperto dopo la caduta del regime l’hanno chiamato Berlusconi».
Cosa bisogna fare nel concreto?
«Confidavo in una mobilitazione nazionale e internazionale. Invece vedo un gran silenzio.
Anche da parte del Pd».
Come spiega il silenzio della sinistra?
«Apatia, conformismo.
Bisogna denunciare questi falsi regimi comunisti, anche quello di Maduro in Venezuela, che i grillini celebrano come un’avanguardia. A Cuba va introdotta l’economia capitalistica, la democrazia».
Bertinotti dice che servirebbe una seconda rivoluzione.
«Mi sembra la pazzia più totale. Non ha capito che l’errore è nell’origine: è in Lenin. Maledetto 1921! A Livorno avrei votato anch’io per la scissione, invece aveva ragione Turati».
È colpa dell’embargo?
«Sì all’inizio della rivoluzione, perché se Fidel si è visto costretto ad abbracciare l’Unione sovietica fu tutto merito dell’embargo americano.
Se non ci fosse stata questa azione distruttiva degli Usa probabilmente oggi Cuba sarebbe una democrazia».
E oggi è ancora così?
«Oggi è un falso problema. Se sei ricco trovi anche i vini più pregiati. I militari in fondo sono contenti dell’embargo, perché dispongono di un formidabile alibi per giustificare la miseria e la repressione nei confronti dei dissidenti».
Letta segretario finora l’ha convinta?
«Si candida a Siena, vedo. Che senso ha? Ci serve un segretario che stia tra la gente, non in Parlamento».