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 2021  luglio 18 Domenica calendario

Intervista a Cristiana Capotondi

Cristiana Capotondi ha 40 anni e viaggia da mesi tra Roma e Milano. A Milano vive, a Roma lavora alla serie Le fate ignoranti di Ferzan Ozpetek e Gianluca Mazzella. È un’attrice che avrebbe voluto giocare a calcio. Dalla fine del 2018 all’inizio del 2021 è stata vicepresidente della Lega Pro, oggi è capo delegazione della nazionale femminile. Ha una faccia dolce ma sul campo sa essere cattiva, basta domandarle che cosa le fa venire in mente un pallone: pensa a un prato verde, al fiatone, all’acqua bevuta dalla fontanella, alle ginocchia sbucciate, alla terra nelle orecchie. «Quando al liceo giocammo una partita all’Acqua Acetosa, per il torneo interscolastico della Figc, uscimmo dal campo infangate, avevo segnato su rigore ma era volata qualche parolina di troppo. Il gol più bello, a dire il vero uno dei pochi, l’ho fatto il giorno in cui Andrea Pezzi, il mio compagno, ha compiuto quarant’anni. Corro sulla fascia, perdo uno scarpino proprio quando mi arriva la palla, calcio di destro, scalza, e la metto sotto l’incrocio».
Con rispetto parlando, a quasi 41 anni o sei Buffon o il calcio lo puoi vivere solo da una scrivania.
«Ci ho provato e ci sono per fortuna i ricordi. Sono cresciuta guardando la Roma con mio padre e mio nonno Giorgio. Il calcio mi ha trasmesso subito un grande senso di libertà. Il nonno è stato accompagnatore della Roma nella seconda presidenza Sacerdoti, erano gli anni Sessanta.
Negli ultimi giorni della sua vita, nel febbraio del 2005, chiamava tutti Francesco, come Francesco Totti, ed è morto scommettendo con mio padre che la Roma, in casa con il Livorno la domenica successiva non avrebbe vinto.
Era un reduce della seconda battaglia di El Alamein, molto orgoglioso e convinto che un uomo non dovesse mai mostrare i propri sentimenti.
Avrebbe preferito un nipote maschio, ne sono certa».
Crede che se fosse nata maschio sarebbe stato tutto più facile?
«Non lo penso mai in relazione a qualcosa di diverso che non siano i tacchi a spillo».
È cresciuta nel mito di Antonio Cabrini e Paolo Maldini. Come riusciva a infilarsi nelle partite dei ragazzi?
«Con i maschi giocavo all’oratorio.
Tra Trastevere e Monteverde le mie domeniche erano piene di partite di pallone a Villa Pamphilj con le porte delimitate dagli zaini. I maschi non sempre avevano voglia di giocare con le femmine, ma per fare squadre pari erano costretti ad accettarmi, la parte più impegnativa della giornata era convincerli».
Qual è il suo ruolo e con quale piede calcia di preferenza?
«Oh guardi, uso solo il destro e resto una mezza schiappa. Sono quello che una volta si chiamava terzino».
Ha mai pianto per una emozione sportiva?
«E me lo domanda? Almeno due volte: dopo il rigore decisivo parato da Donnarumma agli inglesi qualche giorno fa e al termine di Italia-Olanda, semifinale dell’Europeo 2000 che poi vince la Francia con il golden gol di Trezeguet. Se la riveda quella partita, la prego, è una meraviglia. La nostra difesa fu epica e Toldo parò l’impossibile. Il calcio è come la vita, magia».
Chi fu a scoprire le sue doti di atleta?
«Don Vincenzo, ovvero monsignor Vincenzo Paglia. Negli anni ’80 era il parroco della mia chiesa, Santa Maria in Trastevere. Una volta invitò la Rai a riprendere le attività sportive degli scout. Il regista gli disse che ero stata la più brava, lui lo riferì a mio padre e di lì nacque tutto».
Il calcio spesso è magia, il cinema lo è sempre. Ma mi viene in mente un giudizio di Marlon Brando: "Non posso credere di dover passare ogni giorno della mia vita con esseri così limitati come gli attori".
Esagerava?
«Io passo la vita in mezzo a tante persone e non trovo mai nessuno noioso, nemmeno i miei colleghi.
Certamente non potrei vivere frequentando solo attori e attrici, come non potrei vivere frequentando solo calciatori, ingegneri, idraulici o giornalisti».
Lei è stata dirigente della Lega Pro. Un’esperienza utile, nonostante le polemiche che l’hanno accompagnata?
«Ho accettato una grande opportunità: poter lavorare nel calcio. Lega Pro è un punto di osservazione strategico, rappresenta la base del professionismo e da essa dipende buona parte dell’equilibrio del sistema. Deve essere un meccanismo perfetto, perché forma a tutto tondo circa 15 mila ragazzi tra i 6 e i 19 anni.
Oggi è capo delegazione della nazionale femminile.
Come Vialli con gli azzurri?
«È un ruolo istituzionale, più che operativo, che mi appaga molto, posso vedere da vicino lo sviluppo del movimento del calcio femminile, un vero privilegio contando quanto queste giovani donne fanno per affermare un’immagine fuori dagli stereotipi. Le unisce una passione comune e le difficoltà che hanno vissuto quando hanno cominciato a giocare».
Esiste ancora un deficit di attenzione da parte delle società tra movimento maschile e femminile?
«Beh, sì. Il nostro calcio è percepito come più romantico, fuori dalle logiche di mercato che animano quello degli uomini. Sa, ho conosciuto anche molte ragazze che, espressione di un vecchio modello di femminilità, non condividono e non accettano che le donne oggi vogliano di più, vogliano tutto. Io credo che il vero salto di qualità lo faremo quando non avremo più nulla da rimproverare a noi stesse».
La strada della parità di genere è ancora lunga?
«Da un punto di vista generale credo che le donne siano in cammino e che questo processo debba ancora compiersi su alcuni temi fondamentali come, per esempio, non pensare che per sentirsi pienamente realizzate si debba per forza diventare madri. La politica ha proposto le quote rosa che hanno consentito a molte donne di fare un passo verso la scena manageriale. Ma il processo più importante è culturale e qui i politici, i personaggi pubblici possono fare di più.
Anche il cinema può contribuire a costruire un immaginario diverso del femminile, portarci in una realtà in cui le donne sono già oltre».
Lei per chi ha votato?
«Più o meno sempre lo stesso voto, da vent’anni. Sono orientata verso un’attenzione al prossimo, al più debole ma sono anche convinta che il motore produttivo della società debba ritrovare politiche attente allo sviluppo. Mi piace pensare di essere una socialista liberale, ma non so quale partito attuale mi possa rappresentare».
Ha mai amato o avuto una relazione con una donna?
«No, mi piace molto il mondo maschile, l’altro, il diverso da me. Sto con Andrea da quindici anni, abbiamo deciso di non sposarci e non abbiamo ancora figli».
Quali sono i suoi più grandi rimpianti?
«Non aver studiato ingegneria navale, aver fatto un paio di scelte affrettate per paura e incapacità di visione. Sa, sono della vergine, il disordine mi disturba e, a volte, per mettere tutto a posto velocemente dimentico che anche il disordine momentaneo è portatore di armonia».
Quanto le fa paura perdere gioventù e bellezza?
«Mi fa paura perdere la forza fisica, l’energia, la velocità nel ragionamento. La bellezza cambierà negli anni, è già cambiata, ma se sarò brava qualcosa resterà. L’unica cosa che mi auguro è che in me rimanga il desiderio di fare il bagno in mare a gennaio, nell’acqua ghiacciata».
Che cosa è stato il Covid?
«Un uragano. Ci ha portato via persone amate senza concederci una parola di addio, una carezza. Ho perso un amico, è stato terribile.
Dopo il virus non si può più tornare indietro, bisogna costruire un nuovo umanesimo della scienza, della tecnologia e dell’innovazione.
La tragedia mi ha fatto però scoprire che la felicità esiste. È un duro lavoro, la felicità: nasce dal dolore».