Per uno di quegli strani scherzi del destino, in quella stessa data è avvenuto un altro degli eventi più drammatici — e famosi — della storia di Roma. Proprio nella notte tra il 18 e il 19 luglio del 64 d.C. ebbe infatti inizio il Grande incendio di Roma, l’incendio di Nerone. Una tragedia di fuoco che durò nove giorni cambiando per sempre la storia di Roma e probabilmente di tutto il mondo. È sulle ceneri dell’incendio che sorgerà la Roma antica i cui resti possiamo ammirare oggi, con il Colosseo e altri monumenti famosi. Non solo. Senza il martirio dei cristiani è lecito chiedersi se la Basilica di San Pietro sarebbe mai stata costruita dal momento che è stata edificata sulla tomba di Pietro. Probabilmente sarebbero sorti altri luoghi di culto della cristianità non meno monumentali ma difficilmente sarebbe stata questa Basilica con tutta la sua storia.
Un evento quindi di grande rilevanza, la cui portata storica viene spesso sottovalutata, oscurata dalle tante leggende che lo circondano. A partire da quelle sulle responsabilità di Nerone. Pochi sovrani dell’antichità hanno goduto di una pessima fama quanto il quinto imperatore di Roma… In alcuni casi si tratta di quelle che oggi definiremmo vere e proprie "fake news" scritte dai suoi detrattori, in genere i membri tradizionalisti del Senato, che con lui furono quasi sempre in conflitto. Come accadde in occasione del Grande incendio del 64 d.C. Quasi all’unanimità, gli storici antichi hanno accusato Nerone di aver appiccato intenzionalmente il fuoco a Roma per poter così realizzare i propri megalomani progetti edilizi, tra cui la sua nuova gigantesca villa imperiale, la Domus Aurea.
Oggi gran parte degli storici moderni scagiona l’imperatore da questa accusa infamante, fatta probabilmente circolare dai senatori ostili a Nerone allo scopo di screditarlo. L’ipotesi più accreditata è che, più banalmente, le fiamme abbiano avuto un’origine accidentale, come capitava di frequente nella Roma antica dove gli incendi costituivano uno dei problemi più gravi e temuti. Alcuni studiosi hanno calcolato che dal I secolo a.C. — la fine della Repubblica — alla caduta dell’impero, nel 476 d.C., a Roma si sia verificato in media un grande incendio ogni dieci/quindici anni. È un numero elevatissimo se paragonato alle notizie di incendi in città ai giorni nostri, ma che non deve stupire.
Fino all’avvento dell’elett ricità, il fuoco era utilizzato per uno svariato numero di attività: la cottura dei cibi, il riscaldamento, l’illuminazione. Inoltre le abitazioni contenevano moltissimo materiale infiammabile. Gran parte degli edifici era costruito in legno, e lignee erano quasi tutte le parti interne come scale e soppalchi. Molto diffusa era anche la paglia, usata sia per gli animali che come giaciglio dagli schiavi e dalle fasce più povere della popolazione. Questi elementi, insieme con la mancanza di acqua corrente nella maggior parte delle case, rendevano le città antiche particolarmente vulnerabili al pericolo d’incendi. Nel caso di Roma, poi, altri fattori concorrevano a renderla ancora più esposta a questo tipo di calamità.
In primo luogo era una metropoli gigantesca, la più grande al mondo, con una popolazione che ai tempi di Nerone raggiungeva circa un milione di abitanti. La sua struttura urbanistica era inoltre molto disordinata. La capitale dell’impero, fatto curioso se pensiamo a come sono ordinate le colonie fondate dai Romani, si era infatti sviluppata senza un piano regolatore vero e proprio, ma seguendo la morfologia del territorio, costituita da colli sparsi (i famosi "sette colli") intervallati da strette valli con poche pianure.
Il risultato di questa crescita disordinata era una città perennemente congestionata, con un intrico di stradine tortuose e vicoli simili alle radici avvolgenti di una pianta. A eccezione di alcune importanti strade centrali, come la via Sacra, le vie di Roma sono tutte molto strette, a malapena in grado di consentire il passaggio di un carro. Cesare e Augusto avevano tentato di dare un assetto più razionale alla capitale, ma con scarso successo. Per ironia della sorte, per avere un nuovo piano urbanistico, bisognerà attendere proprio il Grande incendio di Roma: sarà Nerone a farlo, imponendo distanze maggiori tra gli edifici e strade più larghe.
Un altro problema era costituito dalla densità abitativa. Gran parte delle persone, soprattutto di bassa estrazione, viveva ammassata in grandi edifici su più piani con appartamenti, chiamati insulae . In genere le insulae erano alte tre piani, ma la grande domanda di abitazioni, e la cronica mancanza di spazi per costruire, aveva portato alla realizzazione di edifici anche di sei/sette piani. A causa della speculazione edilizia, in molti casi questi grandi caseggiati erano costruiti con materiali scadenti e muri poco spessi, e i crolli accidentali erano molto frequenti.
Proprio la grande diffusione di questi edifici si rivelerà infatti uno dei fattori determinanti durante il Grande incendio del 64 d.C. In questi altissimi caseggiati le fiamme, una volta che raggiungevano i piani superiori, diventavano praticamente incontrollabili e, grazie alla ristrettezza delle vie, si propagavano facilmente da un edificio all’altro, soprattutto in presenza di vento. Già da questo breve elenco si capisce come la Roma dei Cesari fosse una vera e propria polveriera pronta a incendiarsi… Una condizione di pericolosità di cui erano ben consapevoli anche i Romani, che il 23 agosto di ogni anno esorcizzavano collettivamente la propria paura degli incendi con la grande festa dei Volcanalia, in occasione della quale venivano fatte offerte a Vulcano, dio del fuoco. Preghiere comprensibili dal momento che di fronte alla furia delle fiamme non disponevano di mezzi efficaci per difendersi.
Per fronteggiare gli incendi Augusto, qualche decennio prima, aveva istituito quello che è stato definito il primo corpo permanente di vigili del fuoco della storia: i vigiles . Contava sette coorti, con un numero di effettivi che nel II secolo d.C. arrivò a raggiungere i 7000 uomini, mille per ogni coorte. I suoimembri erano arruolati, almeno inizialmente, tra i liberti, ovvero gli schiavi liberati, e avevano un inquadramento di tipo militare su un modello simile a quello delle legioni in quanto, oltre all’attività di vigili del fuoco, svolgevano anche il compito di polizia notturna.
Facilmente riconoscibili per le loro tuniche di color giallo e marrone e il loro elmo di cuoio, i vigiles pattugliavano le strade pronti a intervenire al primo allarme. Tra gli strumenti che avevano a disposizione vi erano corde, rampini, secchi, scale, picconi e asce, oltre a campanelli e fischietti con cui dare l’allarme in caso di emergenza. Il "pezzo forte" del loro equipaggiamento era costituito dalle pompe, chiamate siphones . Si trattava dell’equivalente antico delle nostre pompe antincendio, capaci di produrre un forte getto d’acqua che arrivava sino a dieci o venti metri di distanza. Bisogna dire che, seppure innovativi per l’epoca, questi mezzi potevano rivelarsi molto efficaci nel caso di incendi contenuti, mentre poco o nulla utili per quelli di vaste proporzioni. Come nel caso del Grande incendio del 64 d.C. E torniamo così a quella afosa notte d’estate: cosa avvenne esattamente?
Occorre innanzitutto fare una premessa: su questo importante episodio della storia romana disponiamo di poche informazioni. Abbiamo il racconto di alcuni storici antichi (Tacito, Svetonio e Cassio Dione) e un certo numero di reperti archeologici, che ci forniscono un’idea d’insieme di quanto sia accaduto, ma non ci permettono — almeno per il momento — di comprendere l’esatta dinamica dell’incendio durante quei drammatici giorni. Tra le fonti antiche in nostro possesso Tacito è quella probabilmente più precisa, anche per la sua maggiore vicinanza temporale ai fatti. Lo storico latino racconta che l’incendio ebbe inizio nel Circo Massimo «in quella parte che è contigua ai colli del Palatino e del Celio » (quindi ben distante dal luogo in cui Nerone farà costruire la sua Domus Aurea). Si trattava di una delle zone a più alto rischio di incendi di tutta la città. All’epoca di Nerone il Circo Massimo era infatti molto diverso dall’immagine che vediamo di solito in film o documentari. Era già una struttura gigantesca, ma soltanto una piccola porzione, le tribune più basse, erano in mattoni e pietra, tutta la parte superiore era invece fatta di legno e si reggeva su un’intricata foresta di travi, tavole e aste di sostegno estremamente vulnerabili agli incendi. Tacito aggiunge che l’incendio scoppiò in una delle botteghe del Circo dove si trovavano merci infiammabili. A differenza di quanto si è portati a pensare, il Circo Massimo non era infatti soltanto un edificio sportivo. Nelle sue arcate esterne trovavano spazio decine di botteghe che vendevano merci di ogni tipo e restavano aperte tutto l’anno. In questo senso lo possiamo paragonare a un enorme "centro commerciale", il più grande di tutto l’impero.
Cosa può aver innescato le fiamme? Possiamo fare solo delle supposizioni. Nel mio libro ho immaginato che sia stata una lucerna, caduta accidentalmente. Ma probabilmente non lo sapremo mai. Quello che è certo è che, dalla bottega, le fiamme si estesero rapidamente sulle tribune superiori e da quel momento divennero incontrollabili. Il fuoco è un po’ come un essere vivente: nasce, si nutre, cresce e si riproduce. Le migliaia di tonnellate di legname contenute nelle tribune del Circo gli fornirono tutto il materiale per farlo. A nulla valse l’intervento dei vigiles, che disponevano di caserme nelle vicinanze: nel volgere di poche ore, l’intero Circo fu avvolto dalle fiamme. Da qui in poi le informazioni degli autori antichi si fanno meno precise, e per comprendere l’evoluzione dell’incendio ci viene in soccorso l’archeologia.
Sempre Tacito racconta che a favorire la rapida propagazione dell’incendio fu la presenza di un forte vento. Ed effettivamente, dopo aver completamente avvolto il Circo Massimo in tutta la sua lunghezza, i rinvenimenti archeologici dimostrano come le fiamme abbiano iniziato a dirigersi verso nord-est. Oggi sappiamo che a spingerle in quella direzione è stato probabilmente il Libeccio che si era alzato improvvisamente e che continuò a soffiare per diversi giorni. L’arrivo del vento segna l’inizio della tragedia. In breve tempo le fiamme accerchiano il colle Palatino, risalendo il Celio e devastando l’area dove sorgeva il Foro Boario, il più grande mercato all’aperto di Roma. Quando raggiungono la valle dove oggi sorge il Colosseo la violenza delle fiamme si manifesta in tutta la sua potenza.
Durante degli scavi condotti nelle Curiae Veteres, un antico edificio situato in quella zona, l’équipe di archeologi guidata dalla professoressa Clementina Panella ha trovato i resti di una statua di bronzo dell’imperatore Tiberio che per l’eccessivo calore si era addirittura frantumata come vetro, segno che in quel punto le temperature hanno raggiunto quasi i mille gradi. Quindi il fuoco, come una "belva affamata" si è diretta verso il Foro, il cuore di Roma. Possiamo immaginare lo sgomento nella capitale. Nel Foro si trovano gli edifici più antichi e sacri della città, l’essenza stessa dell’Urbe. In poche ore vanno in cenere decine di antiche domus aristocratiche, tra cui anche la casa paterna di Nerone insieme a buona parte della sua nuova residenza imperiale, la Domus Transitoria. Le fiamme non risparmiano nemmeno il tempio di Vesta, dove era custodito il fuoco sacro di Roma.
Alla fine, dopo una lotta disperata, i vigiles, coadiuvati da pretoriani e semplici volontari, riescono a fermare le fiamme proprio nella piazza del Foro, che dalle indagini archeologiche non risulta danneggiata. Meno fortunati sono gli abitanti della vicina Suburra, il quartiere popolare che si estendeva all’incirca dove oggi si trova il Rione Monti, uno dei più amati dai turisti. Tra gli stretti vicoli della Suburra, decine, forse centinaia di persone, trovano la morte imprigionate dalle fiamme.
E mentre accade tutto questo, l’imperatore cosa fa? L’immagine che è passata alla storia è quella di Nerone che osserva disinteressato la città bruciare declamando versi e suonando la cetra. In realtà si tratta di una leggenda: anche le fonti antiche a lui ostili ammettono che l’imperatore cercò invece di fare il possibile per salvare la città. Al momento dello scoppio dell’incendio Nerone non si trova a Roma, ma nella sua villa ad Anzio. Una volta informato di quanto sta accadendo, raggiunge immediatamente la capitale, forse già nel secondo giorno dell’incendio. Qui, coadiuvato dai suoi consiglieri — tra cui il suo discusso braccio destro Tigellino — assume la guida delle operazioni, prendendo decisioni importanti a favore della popolazione colpita.
Fa affluire rifornimenti di grano e altre vettovaglie da Ostia e dal circondario. Apre gli edifici pubblici del Campo Marzio e i suoi giardini privati in Vaticano alle decine di migliaia di sfollati, facendo montare strutture provvisorie per ospitarli e rafforzando i controlli per evitare fenomeni di sciacallaggio.
Ancor più importanti sono le decisioni che prende per cercare di arrestare le fiamme che imperversano. Nerone fa abbattere decine di edifici intorno alla linea dell’incendio. Si tratta della cosiddetta tecnica del "fuoco controllato", utilizzata ancora oggi dai vigili, soprattutto in caso di incendi boschivi. Si tratta di interventi drastici che danno dei risultati.
Sappiamo infatti che il sesto giorno l’incendio viene momentaneamente fermato, e quando riprenderà nei giorni seguenti, a causa probabilmente del ritorno del vento, i danni saranno comunque limitati.
Il 27 luglio, dopo nove giorni, l’incendio viene alla fine arrestato definitivamente. Le fonti non lo dicono, ma è facile immaginare che Nerone abbia attraversato la città in rovina, per verificare di persona la situazione. Quello che avrebbe visto l’imperatore era un panorama spettrale. Racconta Tacito che «Roma, era divisa in quattordici quartieri, dei quali quattro rimanevano intatti, tre abbattuti al suolo, degli altri sette rimanevano solo pochi ruderi rovinati ed carbonizzati». Non conosciamo il numero di vittime ma è possibile che sia stato piuttosto consistente, forse diverse migliaia.
Nei loro racconti tutte le fonti antiche sembrano infatti insistere sulla morte di molte persone. A queste si aggiungeva un numero ancora maggiore di feriti e invalidi e poi i senzatetto, che dovevano essere decine di migliaia. Per far fronte a questo dramma, Nerone mostra una freddezza da sovrano navigato, benché abbia in quel momento soltanto 27 anni. Indennizza chi ha perso i propri beni e avvia uno dei più grandi progetti di ricostruzione urbanistica della storia antica. Fa abbattere ciò che resta dei vecchi caseggiati pericolanti per riedificarli con solide fondamenta in calcestruzzo e precisi limiti di altezza. Per scongiurare il ripetersi di nuovi incendi, fa ampliare le strade e potenzia il sistema idrico della città. Dove è possibile, gli stretti vicoli della città augustea lasciano il posto ad ampi viali porticati.
Per i giganteschi lavori di rimozione delle macerie e di ricostruzione della città vennero impiegati migliaia di schiavi, ma anche moltissimi degli sfollati che nell’incendio avevano perso gran parte — se non tutti — i propri averi. Nonostante questo, l’incendio aveva messo a dura prova la popolarità dell’imperatore. Iniziano a circolare le prime voci. Qualcuno ricorda il tragico precedente di Brenno e il saccheggio di Roma avvenuto quattro secoli prima. Nerone è ancora amato dal suo popolo, ma i Romani, lo abbiamo visto, sono superstiziosi. È in questo clima che Nerone, per sviare i sospetti su di sé, decide di individuare un capro espiatorio. Lo trova in una comunità ancora poco numerosa e poco integrata nella società romana. Una comunità ancora "debole", che non gode di grosse protezioni politiche. I Cristiani. Una scelta che avrebbe cambiato per sempre la storia del mondo.