Robinson, 17 luglio 2021
Intervista a Paola Pallottino
Nel repertorio parolistico di Paola Pallottino ci sono almeno tre brani straconosciuti. Li cito così in ordine sparso: Occhi di ragazza, 4 marzo 1943 (altrimenti noto come Gesù bambino) e Il gigante e la bambina. È buffo, ma l’autrice di quei versi non si definirebbe mai paroliera. Scrittrice, affabulatrice, illustratrice sì. Ma per lei le canzoni sono state un di più, una specie di “resto” che la vita le ha messo a disposizione e che lei ha tradotto con intelligenza e sensibilità ritmica. A 82 anni questa piccola musa di Lucio Dalla e di altri cantanti non si impanca in discussioni inutilmente pompose. Come la rosa è una rosa così Paola è tale nella sua naturalezza, che a me appare per le storie che mi racconta. Un padre famoso nell’ambito degli studi etruschi, due figli, un marito scomparso qualche anno fa, e un mestiere che non coincideva con la musica. Un’outsider che torna al centro con la riscoperta di un album di canzoni del 1974, Donna Circo dove lei racconta storie di funambole, trapeziste, cavallerizze, contorsioniste, donne tagliate in due.Qualche anno prima de “La donna cannone” di De Gregori lei usa il circo per raccontare la donna e la sua marginalità. Perché?«Mi colpì molto quella canzone di De Gregori.Semplicemente meravigliosa. La differenza è che lui rese leggera quella figura, mentre io ho provato a coglierne il dolore. Nel circo tutto diventa più leggibile, forse perché è uno spazio dove ciò che accade risponde a proprie leggi. E poi c’è stato l’amore per questa forma di spettacolo, mio e di Stefano, mio marito, che lo ereditò dal padre Mario Pompei, scenografo e illustratore. In tante illustrazioni mio suocero rappresentò il circo. Era la sua una grande passione, al punto che Stefano nel 1961, in omaggio al padre scomparso pochi anni prima, girò un documentario che si intitolava La fabbrica del circo ».Suo marito era regista?«Era architetto e urbanista. Ma quando nel 1961 il circo Orfei venne a Roma realizzò un documentario, seguendo tutte le fasi: dal montaggio del tendone fino all’arrivo degli animali alla stazione ferroviaria di San Lorenzo per la parata cittadina. Furono giorni indimenticabili, durante i quali stringemmo amicizia un po’ con tutti, da Liana a Nandino, il domatore di leoni. Questo è stato lo sfondo da cui è nato il disco».Cosa impedì che venisse pubblicato?«L’album era pronto, ma all’ultimo momento ci fecero sapere che non l’avrebbero distribuito. Non conveniva.Non ho mai capito il senso dei quella parola. Salvo decretare che una creatura era nata morta. Oggi lo ripropongo sia nella versione di Gianfranca Montedoro che in quella dove 12 artiste cantano i singoli brani».Facciamo un passo indietro. Lei nel 1970 scrive una canzone considerata uno dei capolavori di Lucio Dalla, “4 marzo 1943” o “Gesù bambino”. Come nacque il rapporto con Dalla?«Ero appena tornata dalla Tunisia, dove trascorsi due anni con mio marito Stefano, chiamato a ideare piani regolatori. E ci stabilimmo a Bologna. Scribacchiavo le solite poesiole, spacciate per canzoni. Erano testi nati dal mio innamoramento per Brel, Brassens, Moustaki e il primo De André. Alcuni amici mi indirizzarono a Dalla per sottoporgli quei componimenti. La cosa buffa fu la naturalezza con cui Lucio mi ricevette la prima volta».Buffa in che senso?«Aprì la porta di casa in perizoma. Forse pensava che era la maniera più semplice per farmi fuggire. Lo conoscevo solo di nome. E mi sembrò del tutto naturale, visto che era estate, che girasse seminudo mostrando tutto il suo pelame».Una scena raccapricciante.«Perché? Lui è stato un unicum non solo nella canzone ma anche nella vita, voglio dire nel comportamento. E comunque era a suo modo un genio e a uno così si permettono cose fuori dalla norma».A rimetterlo nella norma c’era una madre un po’ invadente e protettrice, c’era l’ansia per un successo che stentava ad arrivare. C’era la stravaganza un po’ naif nel vestire. La profonda fede cattolica e l’omosessualità. Come si mescolava tutto questo?«Con straordinaria naturalezza. In Lucio non c’era niente che stridesse o che potessi considerare fastidioso. Sapeva essere accogliente».Come accolse il testo di “Gesù bambino”?«Lui sostiene che era alle Tremiti e che una volta letto il testo cominciò a cantarlo alla maniera di un cantastorie. E gli piacque al punto di commuoversi. La verità è che ci vedemmo a Bologna nell’autunno del 1970 e leggemmo insieme il testo. Cosa che avevamo già fatto in passato. E non è vero, come qualcuno ha insinuato, che io glielo avessi spedito per posta».Ma perché Dalla avrebbe dovuto fornire una versione diversa?«Adorava raccontare bugie, reinterpretare i fatti alla sua maniera e sapeva essere convincente!».Si è detto anche che il testo della canzone lei lo abbia cucito sulla vita di Dalla.«Falso, anche questo. Scrivendolo mi ispirai a Lo straniero di Moustaki e certo non volevo raccontare la vita di Lucio, che oltretutto non conoscevo».Perché da “Gesù Bambino” la canzone divenne “4 marzo 1943”, che è poi la data di nascita di Dalla?«Il motivo fu prescelto da una giuria speciale per partecipare a Sanremo. La Rai, allora diretta da Ettore Bernabei, stabilì che non ci dovessero essere riferimenti religiosi, a cominciare dal titolo. Quanto al testo, venne cambiato».Nonostante la censura, la canzone fu accolta bene.«Arrivò terza, io vinsi un premio speciale che mi fu assegnato da una giuria presieduta da Mario Soldati, e Lucio andò incontro a un successo clamoroso».Anche la canzone successiva, che lei scrisse, “Il gigante e la bambina”, fu osteggiata dalla censura.« Il gigante e la bambina era un dopo Sanremo cucito addosso a Dalla».Però in quel testo certe immagini potevano incoraggiare la critica più retriva.«Lei mi attribuisce intenzioni che non ho mai lontanamente avuto».Beh, c’era un fatto di cronaca, un bruto che rapisce una bambina.«Che ho cercato di trasformare in una favola. Volevo che chi ascoltava la canzone si concentrasse sul giudizio della gente, sulle paure, e le chiacchiere che si scatenano dopo un fatto violento. In quella canzone non c’è nessun stupro, come qualcuno ha interpretato.E suggerirei di leggere l’originale e non la versione adattata a Rosalino».Rosalino sarebbe diventato Ron. Perché Dalla cedette a lui la canzone, cioè di fatto a un esordiente.Lei come reagì?«Fui travolta dalla rabbia. Non sono mai entrata nelle sue scelte musicali. Ma con quella decisione Lucio, a cui il testo era piaciuto tantissimo, favorì il suo “cocco” che non aveva né l’età né tantomeno la visione del mondo per affrontare una canzone che richiedeva una sensibilità e un’esperienza ben diverse».Fu rottura?«Totale. Si ricompose anni dopo quando mi telefonò per dirmi che la sera prima aveva cantato la versione originale di Gesù Bambino ».Nonostante altre canzoni il vostro rapporto professionale si esaurì. Perché?«Onestamente non lo so e non ne abbiamo mai parlato.Credo che negli anni in cui non ci siamo sentiti Lucio avesse trovato una sponda felice in Roberto Roversi e, d’altro canto, io avevo tutti i miei impegni con l’università».Però ha continuato a scrivere per altri artisti, come Branduardi.«Ho scritto solo occasionalmente, non considerando quella del paroliere una professione. E poi per fare il paroliere devi avere un musicista e nessuno mi cercava seriamente».Da dove le proviene la capacità di scrivere testi di canzoni?«Forse è stata la voglia di raccontare sinteticamente e in metrica delle piccole storie. Un’inclinazione assecondata fin da piccola».Come è stata la sua infanzia e dove è nata?«Sono nata a Roma il 9 aprile del 1939, mio padre il nove novembre 1909. Condividiamo il culto del 9! Sono stata una bambina rapita perché, a quattro anni, quando la mamma si ammalò, venimmo a stare nella villa dei nonni a Monte Mario».Perché dice “rapita”?«Forse perché ero stata strappata dal calore di un affetto primario. Mi immedesimavo moltissimo in tutti i bambini orfani o senza madre. Fu la nonna Margherita, una sorta di protofemminista, a provvedere a tutto e ancora la rimpiango».Restava la figura paterna, Massimo Pallottino, autorevole studioso del mondo etrusco.«Era un lavoratore instancabile, uno studioso geniale e un uomo adorabile».Chi erano i suoi amici?«L’amico del cuore di mio padre fu Paolo Graziosi, paleontologo, archeologo, antropologo. Viveva a Firenze e fu soprattutto un esploratore. Studioso di esoterismo, analizzò i fenomeni medianici; io me ne appassionavo. Mi spediva delle letterine indirizzate all’“Apprendista stregone”. Mio padre era felice quando poteva andare a Firenze, a mangiare dallo “zio Paolino” e godersi i film di Totò con grande disapprovazione di mia madre».Ha mai pensato di seguire le orme di suo padre?«No, l’ho seguito poco nelle ricerche archeologiche. Più tardi mi sono appassionata ai suoi scritti. Ma quello etrusco resta il suo mondo».Il suo, a parte le canzoni?«Un vistoso blocco edipico mi ha impedito di iscrivermi all’università. In compenso ho frequentato tutte le Accademie: da quella di arte drammatica Silvio d’Amico all’Accademia di Belle Arti di Ripetta a Roma. Ho fatto il professore a contratto a Bologna e a Ravenna. Ho vinto l’ultimo concorso nazionale a Macerata dove ho insegnato Storia dell’arte contemporanea, come professore associato, fino alla pensione. Poi ho insegnato Storia dell’illustrazione all’Accademia di Belle Arti di Bologna per un paio d’anni».Prima di Bologna diceva è stata un periodo in Tunisia. Com’era la vita da quel lato del Mediterraneo?«Con mio marito abbiamo vissuto un paio d’anni a Susa.Molti cammelli e berbere bellissime. Come donna non ero ammessa alla cultura locale, era difficile approfondire la loro vita, le donne tunisine finivano sempre separate dagli uomini e la sola cosa che ho respirato a pieno era la cultura francese dominante. A differenza dell’Algeria che nel 1962 si era liberata con una guerra, la Tunisia si era affrancata meno traumaticamente e quindi tutto era ancora molto francese. I miei due anni sono stati tranquilli, senza che il diagramma segnasse punte drammatiche».Si annoiava?«Mortalmente. Cercavo di capire il senso di stare laggiù. Leggevo molto Freud e Alfred Adler. Tentativi di autoanalisi. Il solo svago furono certe canzoni francesi».A proposito di canzoni, i suoi testi hanno spesso conclusioni drammatiche.«Ho provato ad andare controcorrente rispetto al cliché della canzonetta d’amore. In fondo la vita non ci dà molti spunti per ridere o essere felici».Nella storia della canzone italiana lei è una curiosa presenza, come si collocherebbe?«Direi da outsider».Il prossimo anno è il decennale della morte di Dalla.Avrebbe una canzone da dargli o qualcosa da dirgli?«I fantasmi non cantano, né scrivono musica. I fantasmi sono la nostra memoria che rivestiamo di quello che abbiamo vissuto. Per Lucio ho provato cose belle e intense. Glielo direi, ancora oggi. È troppo tardi, ma che importa. Ho beneficiato del suo talento e forse lui un po’ del mio. Gli direi che mi manca e, accidenti, gli direi anche che per quella canzone Il gigante e la bambina non doveva farmi lo scherzo di non cantarla».Ma poi l’ha cantata.«Sì, ma è stato come un dono girato prima ad altri. Ma gli direi anche che non importa più. In fondo è stato lui il dono più sorprendente per me e ancora lo conservo gelosamente nel cuore».© RIPRODUZIONE RISERVATA fI fantasmi non cantano, né scrivono musica. Per Lucio ho provato cose belle e intense Glielo direi, ancora oggi Ho beneficiato della sua creatività e forse lui della miag? Il ritratto Paola Pallottino in un disegno di Riccardo Mannelli