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 2021  luglio 17 Sabato calendario

Intellettuali voltagabana


Nel passaggio dal fascismo all’Italia repubblicana la maggioranza degli intellettuali italiani si scoprì di colpo antifascista. Erano pochissimi quelli che avevano alle spalle una scelta di opposizione netta al regime di Mussolini. Quando nel 1931 fu imposto ai professori universitari di giurare fedeltà al regime, a rifiutare furono solo 12 su 1251. Posizioni come quelle di Ernesto Rossi, Leone Ginzburg, Vittorio Foa e di altri che sperimentarono direttamente sulla loro pelle la durezza del carcere, o di Antonio Gramsci, che in galera rimase fino alla morte, furono molto rare. Per molti l’antifascismo fu invece l’approdo di un «lungo viaggio attraverso il fascismo», come scrisse nel 1962 Ruggero Zangrandi, che di quel viaggio era stato protagonista assieme alla generazione dei Guf, dei Littoriali, del pieno coinvolgimento nella politica culturale del fascismo, quella stessa che dal regime ebbe la forza di staccarsi, soprattutto dopo il 1938 e l’infamia delle leggi razziste.
A lungo nel dibattito pubblico quella improvvisa conversione è stata letta all’insegna di categorie, i «voltagabbana», che ne sottolineava il perseguimento dell’utile personale e l’indifferenza verso il bene comune. Nell’Italia democristiana era stata soprattutto la pubblicistica di destra a usare lo sberleffo denigratorio contro l’opportunismo dei «traditori»; un settimanale filofascista come Il Borghese di Gianna Preda e Mario Tedeschi ospitava nel suo inserto fotografico, oltre ad ammiccanti immagini di donne poco vestite, ritratti di personaggi famosi, prima appagati dai loro successi durante il fascismo, poi da quelli – altrettanto ben remunerati- nell’Italia repubblicana.
Progressivamente, però, sulla scia di una memorialistica ricca di titoli e testimonianze, è emersa una storiografia più meditata e consapevole che ha cercato di analizzare il ruolo dei «voltagabbana» collocandoli all’interno di una più matura riflessione sulla fase 1938-1943, quella seguita alle leggi razziste ma anche alle delusioni sui fasti imperiali sbandierati dal regime, al fallimento delle «corporazioni proprietarie» che aveva per un attimo delineato una sorta di terza via fascista tra capitalismo e comunismo, all’intervento nella Guerra civile spagnola dove era emersa una irrimediabile subalternità al nazismo tedesco. Quei giovani che erano fascisti e diventarono antifascisti furono la testimonianza di come il regime fosse stato incapace di assicurare il ricambio della sua classe dirigente, allora imbalsamata in una fedeltà al Duce fine a sé stessa.
Nel dopoguerra, quasi a voler sottolineare l’inconsistenza della categoria dei «voltagabbana», pochissimi intellettuali si schierarono a fianco dei nuovi padroni della scena politica, il Vaticano e la Dc. Qualcuno scelse di militare in formazioni decisamente minoritarie come il Partito d’Azione, molti aderirono a un Pci confinato nel ghetto di un’opposizione resa impotente dalle ragioni della Guerra fredda.
In questo senso, se il momento del distacco dal fascismo è stato molto studiato, qualcosa di più c’era ancora da capire sulle caratteristiche specifiche del contributo che gli intellettuali ex fascisti diedero alla costruzione della democrazia italiana. E in questa direzione il nuovo libro di Simon Levis Sullam (I fantasmi del fascismo. Le metamorfosi degli intellettuali italiani nel dopoguerra, Feltrinelli) ci offre materiali di prima mano che consentono un’interpretazione convincente. Nel suo lavoro ci sono le quattro storie, di uno storico, Federico Chabod (1901-1960), un giurista, Piero Calamandrei (1889-1956), un critico letterario, Luigi Russo (1892-1961) e di uno scrittore, Alberto Moravia (1907-1990); dei quattro vengono ricostruite con puntualità le carriere accademiche, gli incarichi professionali, le più o meno larvate attestazioni di fedeltà al regime. Ma su questo scenario, apparentemente propizio per gli insulti ai «voltagabbana», Levis Sullam innesta poi le avvedute considerazioni di uno storico serio, attento all’eccezionalità dei tempi «del ferro e del fuoco» della guerra e della Resistenza.
Fu allora che gli eventi cessarono di «scioperare», precipitandosi in folla sugli individui, costringendoli a cambiare, a sradicarsi dalle proprie nicchie individualistiche e a lasciarsi coinvolgere (emotivamente se non fisicamente) in un irrinunciabile appuntamento con la storia. Il liberale conservatore Federico Chabod si fece partigiano con il nome di Lazzaro, a segnalare una «resurrezione»; molti anni dopo, i fratelli Taviani avrebbero raccontato la Resistenza (La notte di San Lorenzo) proprio a partire dai nomi di battaglia che i partigiani decidevano di assumere una volta entrati in banda; non solo un’esigenza della clandestinità, ma anche il segnale di una rifondazione esistenziale. La documentazione raccolta da Levis Sullam ci consente di dire che Chabod, Calamandrei, Russo e Moravia, ognuno con le proprie specificità, elaborarono la propria esperienza nel «lungo viaggio» riflettendo sulla «religiosità» del regime di Mussolini.
Tutti condividevano la convinzione che il fascismo avesse sedotto gli italiani grazie al suo appello alla «fede» più che alla «ragione». Russo ne mise in luce le remote origini controriformistiche, risalendo fino al 1545, quando il Concilio di Trento «elaborò dei moduli per una concezione gerarchica ed esteriore della vita confessionale, e quindi anche politica», successivamente stratificatasi nel costume italiano; e Moravia, riflettendo anche sul sacrifico dei cugini, Carlo e Nello Rosselli, insisteva sul carattere «perversamente religioso della dittatura», sottolineandone la «tendenza moderna, di specie fideistica e religiosa, ad abbandonare le posizioni razionaliste, individuali e autonome e cercare la protezione dei grandi miti collettivi». Ma fu soprattutto Calamandrei a insistere sulla necessità che le istituzioni repubblicane si dotassero di una propria religione civile, organizzata intorno al «culto dei morti» partigiani, con un pantheon costruito per quei pochi che, con il loro sacrificio, avevano riscattato l’ignavia dei molti. La politica come «tecnica di governo» non bastava; se, attraverso la loro esperienza, c’era stata una lezione da imparare, era proprio quella che tutti loro consegnarono alla Repubblica come un dono prezioso.