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 2021  luglio 17 Sabato calendario

Green deal, su acciaio e alluminio il rischio di un effetto boomerang

Carbon tax alla frontiera. La misura Ue attira accuse di protezionismo e unilateralismo, rischia ritorsioni Le imprese europee denunciano costi elevati, applicazione complessa e scarsi benefici per il clima
Sissi Bellomo
Acciaio e alluminio prima di tutto, materie prime chiave per cui l’Europa è molto dipendente dall’estero, ma anche cemento, fertilizzanti, elettricità. Su queste importazioni a partire dal 2023 dovremo pagare anche le emissioni di CO2. Chiamarli dazi ambientali è scorretto, insiste Bruxelles, ma la misura presentata dalla Commissione Ue nell’ambito del pacchetto «Fit for 55» – il Carbon Border Adjustment Mechanism (Cbam), secondo la denominazione tecnica – potrebbe comunque avere un impatto paragonabile a quello di una guerra commerciale.
La carbon tax alla frontiera è ancora soggetta a modifiche prima dell’entrata in vigore. Ma fin d’ora sembra destinata a ridisegnare la mappa degli scambi (e forse delle relazioni politiche) internazionali, esponendoci anche al rischio di ritorsioni: magari diverse, ma non meno temibili dei ricorsi al Wto che Bruxelles ha cercato di prevenire associando al varo un graduale ritiro delle allocazioni gratuite di diritti per la CO2. La reazione più dura è arrivata dall’Australia, il cui ministro del Commercio Dan Tehan ha parlato di «nuova forma di protezionismo che danneggerà il libero commercio globale». Ma anche gli Stati Uniti hanno storto il naso, pur con toni più sfumati rispetto all’epoca di Donald Trump: il segretario al Tesoro Janet Yellen nei giorni scorsi ha criticato l’unilateralismo della Ue, affermando che certe misure si dovrebbero concertare «in modo interattivo», senza discriminare i Paesi che per decarbonizzare scelgono strade diverse da quella europea.
Altri, a cominciare dalla Cina, hanno evitato prese di posizione nette. Ma la nuova tassa ha già messo in moto qualche reazione. Il colosso russo dell’alluminio Rusal, ad esempio, ha annunciato pochi mesi fa lo scorporo degli impianti più inquinanti (che comunque continueranno a esportare verso aree meno schizzinose della Ue, mentre da noi arriverà il metallo prodotto in Siberia con energia idroelettrica).
La Russia è il Paese che rischia di più con la Cbam, secondo uno studio di Deloitte, seguita da Cina, Turchia e Regno Unito, vittima per l’ennesima volta della Brexit. Gli Usa sono un po’ meno esposti, almeno finché Bruxelles non deciderà di estendere la misura anche ad altri prodotti, come petrolio e gas.
Anche sul fronte interno la Cbam ha intanto aperto un vaso di Pandora, con le associazioni industriali che si sono rivoltate non contro lo spirito della norma, ma contro la sua formulazione, che potrebbe provocare svantaggi superiori ai benefici: la misura farà lievitare i costi, rischiando secondo le imprese di compromettere ulteriormente la nostra competitività. Preoccupano anche le difficoltà di attuazione, tali da sfociare in «un incubo logistico», per usare le parole di James Whiteside, global head of multi-commodity research di Wood Mackenzie, che fa notare che c’è «poca trasparenza sulle emissioni associate a ciascun prodotto» e che spesso è «problematico determinare il Paese di origine». Su tutto domina il timore che i sacrifici non servano a centrare l’obiettivo principale della Cbam: quello di proteggere il clima evitando il «carbon leakage», ossia la delocalizzazione delle attività inquinanti in Paesi con norme ambientali meno severe. «C’è un enorme rischio di innescare deviazioni degli scambi», avverte Georg Zachmann, economista del think tank europeo Bruegel: triangolazioni che renderebbero la Cbam «un mostro ancora più complicato» da gestire.
Le importazioni da alcuni Paesi extra Ue sono state esentate dalla tassa: è il caso di Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera. Inoltre si potrà dedurre il pagamento della CO2 già effettuato in un Paese terzo: forse anche per questo motivo la Cina ha accelerato il passo, avviando proprio ieri a un mercato per lo scambio dei diritti di emissione simile (e già oggi più grande) a quello europeo.
La normativa predisposta da Bruxelles – che dovrà passare al vaglio dell’Europarlamento e del Consiglio europeo, iter che può durare un paio d’anni – lascia aperte anche altre scappatoie per evitare di pagare l’extra costo della CO2 alla frontiera: un fardello pesante visto che il prezzo sarà quello indicato dal mercato Ue, già oggi vicino a 60 euro per tonnellata e destinato ad salire.
L’alluminio ad alta intensità di CO2 – come quello cinese, prodotto per l’85% bruciando carbone – potrà comunque arrivare senza pagare balzelli climatici, avvertono gli industriali del settore: basta che non si tratti di metallo primario, perché semilavorati e prodotti finiti (come le lattine per le bibite) non sono soggetti alla Cbam. Il rischio è molto elevato per l’alluminio, che ha una catena di valore lunga ed eterogenea: «Oggi non esiste alcun metodo per verificare il contenuto di carbonio in prodotti complessi, che arrivano da più di un impianto e da Paesi diversi», osserva Gerard Gotz, direttore generale di European Aluminium. Uno studio dell’associazione evidenzia comunque un forte aggravio dei costi con la Cbam: intorno al 5% del valore di prodotti come gli infissi per le finestre.
Molte criticità ovviamente valgono anche per l’acciaio. L’ultima versione della normativa Ue copre un ampio spettro di produzione siderurgica, esentando solo i rottami e le ferroleghe, ma includendo anche acciai speciali e inox, oltre a tubi, rotaie e palancole.
Gli addetti ai lavori peraltro sono rimasti sconcertati di fronte alla scelta di Bruxelles di tassare – almeno all’inizio – solo le emissioni dirette di CO2, ossia quelle relative al processo di produzione dei metalli, escludendo invece quelle indirette: in pratica la CO2 che viene emessa dall’elettricità impiegata.
Evitare rincari per i consumatori europei sarà praticamente impossibile, visto il nostro grado di dipendenza dall’estero. Nel 2020 la Ue ha importato 9,5 milioni di tonnellate di alluminio primario, più del triplo di quanto ne abbia prodotto. Quanto all’acciaio Siderweb calcola che la Cbam possa colpire importazioni tra 27 e 37 milioni di tonnellate, con una situazione difficile soprattutto per i semilavorati e i piani. L’Italia rischia di avere la peggio, perché abbiamo una quota di import sulla produzione dell’89%, molto più elevata della media mondiale.