la Repubblica, 16 luglio 2021
Intervista a Bennett Miller
L’Ischia Global Film e Music Festival, dal 18 al 25 luglio sull’isola Covid-free, assegna quest’anno il premio Ischia Truman Capote allo scrittore napoletano Erri De Luca e al regista newyorkese Bennett Miller, che esordì proprio grazie al biopic su Capote, mettendo in scena il percorso artistico e umano che lo portò a scrivere il suo capolavoro A sangue freddo.
Pubblicato nel 1966, racconta l’assassinio della famiglia Clutter da parte di Perry Edward Smith e Richard Hickock. Uscito al cinema nel 2005, Truman Capote-A sangue freddo ottenne il consenso di critica e pubblico, arrivando a conquistare cinque candidature all’Oscar tra cui quelle per il miglior film e la regia. L’unica statuetta arrivò invece grazie al suo magnifico protagonista Philip Seymour Hoffman, morto nel 2104. Ecco la storia di quel lungometraggio raccontata dal regista Bennett Miller, cineasta che ha poi confermato il suo talento dirigendo i successi L’arte di vincere con Brad Pitt e Foxcatcher, uno dei migliori drammi dello scorso decennio.
Come è arrivato alla decisione che Truman Capote sarebbe stato il suo film d’esordio?
«Si è trattato principalmente di circostanze. Il processo è iniziato lentamente, mi sono interessato alla sceneggiatura e ho iniziato a fare i primi passi. Non c’è stata nessuna grande decisione, è stato un progetto sviluppato nel tempo con cura».
Come ha scelto il cast, a partire dall’indimenticabile protagonista?
«Philip fu il primo attore a venirmi in mente per il ruolo, così gli mandai la sceneggiatura. All’inizio l’idea di essere molto diverso da Capote lo rendeva piuttosto ansioso: lo scrittore aveva un portamento estremamente contenuto, con un tono di voce femminile. Philip era invece un uomo massiccio, con la stazza di un giocatore di football. La nostra prima conversazione fu proprio se un interprete con la sua fisicità avrebbe potuto interpretare quello che lui stesso definì un “petite guy”. Philip sapeva però che prima di tutto doveva capire la psicologia più profonda di Capote. Tutto il resto avrebbe riguardato l’aspetto tecnico dell’interpretazione. Per quanto riguarda Catherine Keener non la conoscevo personalmente, accettò di interpretare Harper Lee dopo il nostro primo incontro e mi sento fortunato ad averla avuta nel cast.
Clifton Collins Jr. invece sostenne un provino eccellente, mentre Chris Cooper è un attore che riesce sempre a dare sostanza a personaggi comuni».
Quale è stata la chiave che permise a Hoffman di interpretare Capote in maniera tanto precisa?
«Philip in quel periodo si trovava in un momento della sua carriera molto simile a quello di Capote durante la storia che il film racconta: entrambi nei rispettivi ambienti erano visti come estremamente talentuosi e promettenti, ma nessuno di loro aveva ancora prodotto qualcosa di grandioso. Penso che Philip si aggrappò a questo senso di incompiutezza per entrare nel ruolo e partì da esso per sviluppare il comportamento del personaggio».
Ci fu una scena che si rivelò particolarmente complessa da realizzare a livello emotivo?
«La sequenza dell’ultimo incontro tra Capote e i due assassini per Philip fu molto dura. Si preparò con estrema cura, voleva mostrare come Capote non ammettesse prima di tutto a se stesso quanto delicato sarebbe stato quel momento per lui.
Philip sapeva che Capote avrebbe tentato di non concedersi alcuna emozione nel dire addio a Smith e Hickock, per lui sarebbe stato come mostrare un segno di indulgenza. La performance di Philip riuscì a caricare la scena di tensione emotiva».
Girare “Capote” l’ha aiutata a realizzare in seguito “Foxcatcher”?
C’è una connessione tra i due film?
«In entrambi ci sono dei protagonisti che provengono da mondi molto differenti ed entrano in un universo che non capiscono. Quando non si comprendono con chiarezza le motivazioni e la personalità di coloro che abbiamo di fronte ci esponiamo a situazioni potenzialmente pericolose, come capita a Truman Capote ma anche a Mark Schultz, il protagonista di Foxcatcher. In fondo si tratta di un tema universale, soprattutto oggi che nel mondo globalizzato piccole e grandi comunità vengono a contatto anche quando non riescono del tutto a capirsi».
I suoi film sono basati su storie accadute.
«Si tratta di una coincidenza, anche se sono interessato a mettere in scena personaggi veri. Il mio prossimo progetto sarà comunque qualcosa di diverso: non posso parlarne con precisione, sono ancora in fase di scrittura. Sto facendo proprio come Capote, che visse qualche mese a Ischia perché sentiva che a New York non poteva più scrivere. Allo stesso modo io sto passando qualche settimana in Europa in modo da stare lontano da tutto e poter lavorare con tranquillità a questa nuova storia».