la Repubblica, 16 luglio 2021
La tragica sorte degli interpreti di Kabul
I talebani continueranno ad avanzare ma non conquisteranno l’Afghanistan. Ne è convinto Nasir, uno degli interpreti afgani che ha lavorato con i militari italiani ad Herat e che ora vive nel nostro Paese. Pensa che Kabul non sarà presa. Le poche forze straniere rimaste la proteggeranno e la stessa popolazione ha cominciato a imbracciare le armi per combattere i jihadisti. Di certo, però, la partenza dei soldati internazionali è stato un disastro, una sorta di abbandono: «Gli stranieri sono arrivati trovando una situazione tragica e sono partiti lasciandone una peggiore. L’unica soluzione per la pace è un nuovo accordo tra le parti, ma oggi questo è molto lontano». Gli interessi politici coinvolti sono troppi. A Ovest c’è l’Iran, a nord la Cina e la Russia, mentre a est e sud c’è il Pakistan. «Saranno loro i padroni dell’Afghanistan nel prossimo futuro». Nasir sa che però non si può tornare indietro, bisogna andare avanti. Ecco perché ha scelto di venire in Italia con la famiglia, sacrificando la sua intera vita e quella dei suoi cari, rinunciando a tutto ciò che aveva.
«Siamo partiti portando solo i vestiti e qualche sacchetto di spezie, per ricordare i sapori della nostra terra».
Come lui, in 270 hanno ottenuto la protezione del nostro Paese e sono stati trasferiti con il ponte aereo dell’Operazione Aquila. Restare significava affrontare la vendetta dei talebani, pronti a punire con la morte chi ha aiutato le truppe occidentali. E proteggere la moglie e le due bellissime bambine è l’unica cosa che conta per Nasir. Ad Herat ha lasciato i genitori, il fratello e le sorelle: «attualmente sono al sicuro, perché abitano nel centro della città. Ma i fondamentalisti avanzano e c’è il rischio che presto attacchino anche lì. Mio padre è un ufficiale in pensione e non verrebbe perdonato. Mi mancano molto e gli telefono ogni giorno. Io sono orgoglioso di quello che ho fatto e anche i miei genitori lo sono. Mi invitano sempre a non dimenticare la mia identità, il mio essere afgano e musulmano, ma anche a rispettare le leggi e la cultura del Paese che mi ha dato ospitalità».
Ha cominciato a lavorare con i soldati italiani nel 2009 per aiutare la famiglia e la popolazione. «Mi sono sentito come una sorta di ponte tra mondi diversi. Stare al fianco dei militari occidentali mi ha insegnato nuovi modi di pensare. In questi dodici anni ho partecipato anche a tanti dei corsi dei formazione che voi avete organizzato nella zona di Herat e adesso potrei fare tanti lavori: l’insegnante o persino il giornalista. Non in Italia, almeno per il momento».
Dall’aereo ha capito subito quando è arrivato sopra il nostro Paese: «È circondato dal mare, che io non avevo mai visto prima. E mi ha stupito tutto il verde, così diverso dalle mie valli». Atterrato a Fiumicino, è stato trasferito subito nella destinazione assegnata. E lì sono cominciate le brutte sorprese.
La società privata, incaricata dal governo di gestire le sistemazioni degli interpreti, gli ha dato un appartamento in pessime condizioni. «C’è bisogno di tante riparazioni. Inoltre è i solata da tutto, è difficile raggiungere il centro abitato più vicino. Ad altri dei miei colleghi è andata peggio: si sono ritrovati in abitazioni veramente a pezzi». Nasir è rimasto spiazzato e deluso per il trattamento: «A Herat avevo compilato alcuni fogli in cui si chiedeva dove volessi andare e vicino a chi. Invece mi sono ritrovato solo, senza amici e per di più nello stesso condominio abitato solo da richiedenti asilo. Io non sono razzista, non potrei mai esserlo. Ma ho lavorato per dodici anni al fianco dei vostri soldati, correndo gli stessi pericoli. Ho un visto e un permesso di soggiorno, non capisco perché devo essere trattato come uno dei tanti migranti che sbarcano sulle vostre coste... Per mia moglie e le mie figlie passare dalla nostra casa a questa situazione è stato traumatico». Ha chiesto di essere trasferito e aspetta una risposta, che spera arrivi presto perché la bambina più grande deve iscriversi a scuola. «Con i colleghi abbiamo creato un gruppo su Whatspp per sostenerci a vicenda e ci aiutiamo in tutti i modi. Senza di loro, senza i social che mi permettono di restare in contatto con i miei familiari non avrei resistito a un cambiamento così drastico. Sulla chat ci diamo una mano l’un l’altro anche per le pratiche burocratiche: io ho ho fatto domanda per il lavoro». Le nostre istituzioni lo sosterranno per due anni, garantendo cibo, cure, un piccolo contributo economico e corsi di formazione professionale.
Al termine, dovrà affrontare un esame e avrà un’occupazione retribuita. Nell’attesa ha un sogno nel cassetto: visitare l’Olanda.
«L’Afghanistan? Non so se ci potrò mai tornare. Ma se si riuscisse a creare una vera pace, che riconosca la dignità di tutti, sarei pronto a partire subito».