Corriere della Sera, 15 luglio 2021
Il verbale di Falcone sull’omicidio Mattarella
Un delitto di mafia rimasto misterioso perché dentro la mafia qualcuno l’ha deciso e organizzato senza coinvolgere tutto il vertice di Cosa nostra, in quel momento già spaccato tra «palermitani» e «corleonesi». Dieci anni dopo l’assassinio del presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella – il 22 giugno 1990, davanti alla commissione parlamentare antimafia – Giovanni Falcone dava questa lettura del più dirompente ed enigmatico omicidio politico-mafioso commesso negli anni della «mattanza» che decapitò le istituzioni sull’isola: una esecuzione affidata a killer esterni, sostenne l’allora procuratore aggiunto di Palermo, in quel momento convinto della «pista nera» che portava ai neofascisti dei Nuclei armati rivoluzionari, «con dei mandanti sicuramente all’interno della mafia, oltreché ad altri mandanti evidentemente esterni». Non solo Cosa nostra, quindi. Di qui la necessità di affidarsi a sicari arrivati da fuori, che Falcone pensava di aver individuato in Giusva Fioravanti e Gilberto Cavallini, poi assolti. Ma altri killer non sono stati individuati, e il mistero resta, come le considerazioni di Falcone rimaste finora chiuse nei cassetti dell’Antimafia e desecretato solo ieri, su decisione unanime della commissione.
«Buscetta ha riferito una cosa estremamente importante – racconta Falcone nell’audizione a cui partecipano anche altri rappresentanti degli uffici giudiziari palermitani, ma le domande sono quasi tutte per lui —. Nell’omicidio Mattarella vi era una concordia di fondo di tutta la commissione sull’eliminazione, nel senso che non interessava a tutti più di tanto che rimanesse in vita; però nel momento più acuto della crisi, che poi sarebbe sfociata l’anno successivo in una guerra di mafia molto cruenta, ognuno aveva paura di fare il primo passo, e Stefano Bontate aveva preferito stare alla finestra nel senso di disinteressarsi delle vicende di Cosa nostra per poter poi contestare dall’opposizione certe vicende all’interno dell’organizzazione. Se per l’omicidio Mattarella fossero stati utilizzati killer mafiosi, in due secondi chiunque all’interno di Cosa nostra avrebbe saputo chi aveva ordinato l’omicidio del presidente Mattarella».
L’allora deputato Giuseppe Azzaro, democristiano e siciliano, chiede allora se non sia plausibile che il mandante fosse un solo boss, ma Falcone ribatte: «È assolutamente impossibile, perché l’uccisione di Mattarella presuppone un coacervo di convergenze e interessi di grandi dimensioni». Tuttavia chi lo decise non avvisò gli altri capimafia perché a quel punto «bisognava indicare le ragioni per cui si uccideva una persona, quale fatto in concreto si contesta a Mattarella, quale persona del mondo politico aveva chiesto di ammazzarlo!».
Dunque il magistrato ipotizzava che a volere l’eliminazione del presidente della Regione, fratello maggiore dell’attuale capo dello Stato Sergio Mattarella, fosse qualche esponente del suo mondo collegato a Cosa nostra. E per spiegare questi collegamenti svela parzialmente una dichiarazione del pentito Francesco Marino Mannoia: «Mi ha riferito, purtroppo non posso essere più preciso, di aver avuto un incontro con un uomo politico di rilievo, e Stefano Bontate gli avrebbe detto che se quel personaggio non si fosse comportato così come egli avrebbe preteso, sarebbe toccato a lui ucciderlo».
Il comunista Gerardo Chiaromonte, presidente della commissione, interviene per cambiare argomento: «Non vogliamo prendere il posto del giudice Falcone – Dio ce ne guardi! – nell’istruttoria per l’assassinio di Piersanti Mattarella». Tuttavia Falcone ribadisce la sua convinzione sulla responsabilità dei terroristi neri, e dei depistaggi messi in atto da una parte della mafia: i «corleonesi».
All’inizio, confessa, pensava che la pista neofascista fosse un depistaggio, ma poi aveva trovato i riscontri. Non ultimo il riconoscimento di Giusva Fioravanti da parte della vedova Mattarella, al fianco del marito al momento del delitto, che al contrario aveva escluso altri ipotetici killer mafiosi. Compreso quel Salvatore Inzerillo che l’ex poliziotto passato ai servizi segreti Bruno Contrada (poi condannato per concorso in associazione mafiosa) gli mostrò in fotografia durante una trasferta londinese. Tuttavia, dopo la strage di Capaci, fu lo stesso Buscetta a scagionare i «neri» dal delitto Mattarella, imprimendo una svolta che portò alla loro assoluzione su richiesta della stessa Procura.
A proposito dei rapporti tra Cosa nostra e la politica, Falcone parla a lungo dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, in quel momento libero nonostante l’incriminiazione per mafia, e alla democristiana Ombretta Fumagalli Carulli che insinua coperture, spiega ogni passaggio contestato, trattenendosi a fatica: «Non è stato occultato nulla, né sono state nascoste responsabilità di chicchessia. Non riesco dunque a comprendere cosa si voglia affermare con certe dichiarazioni».
Il socialista Maurizio Calvi ipotizza che anche dietro la gestione degli appalti del sindaco del rinnovamento Leoluca Orlando sia rimasta «l’ombra di Ciancimino», ma Falcone non si fa trascinare nella polemica politica: «Io credo che noi non dovremmo dire altro se non che a nostro giudizio, confortati dalle decisione del gip, sono emersi elementi di responsabilità a carico di certi funzionari dell’amministrazione pubblica, e di certi imprenditori. Tutto il resto, a mio avviso, non deve essere oggetto di valutazione da parte del magistrato. La valutazione politica spetta a voi, non a noi».
Ma sul sistema degli appalti mostra di avere le idee chiare: «C’è un vertice mafioso isolano che controlla la regolazione dei pubblici appalti... Stanno venendo a maturazione indagini svolte in un biennio dai carabinieri di Palermo, con encomiabile professionalità, e sta venendo fuori un quadro della situazione che non esiterei a definire preoccupante». Probabilmente il riferimento è al famoso rapporto mafia-appalti che sarà consegnato dal Ros nel 1991 e che, a trent’anni di distanza, continua ad alimentare polemiche su indagini e processi.