Corriere della Sera, 14 luglio 2021
Intervista a Isabelle Huppert
CANNES Non che qualcuno potesse dubitarne, ma ci tiene a metterlo in chiaro. «Esiste qualcuno che mi intimidisce? Nessuno, non è un sentimento che mi interessa». Lunga vita alla regina, Isabelle Huppert, che al Rendez vous in suo onore, accompagna la frase accennando appena il celebre broncio e regalando una mitragliata di sguardo all’autore della domanda. È fresca del trionfo a Avignone, dove il 5 luglio ha aperto il festival nel cortile d’onore del Palazzo dei Papi con Il giardino dei ciliegi messo in scena dal portoghese Tiago Rodrigues, futuro direttore della rassegna. Cannes è casa sua. Ci è venuta la prima volta nel 1975 con Aloise, ha vinto come miglior attrice per Violette Nozière tre anni dopo e nel 2001 per La pianista, l’ultima volta in concorso è stato nel 2019 con Franke. È stata giurata, presidente. Del festival è ormai una sorta di alter ego. Popolarissima ma sempre un po’ sulle sue. Incontestabilmente divina. E, in effetti, l’incontro con il pubblico assomiglia un po’ a un’udienza a corte. Lei in tailleur pantalone rosso fiamma, i fan in adorazione. Sanno cos’è la soggezione, loro.
Una carriera, tra cinema e teatro talmente fitta da rendere impossibile una sintesi. «Mi regalo la libertà di scegliere. Mai i personaggi. Mi interessa lo sguardo del regista, come vedrà quel personaggio e come costruirlo insieme».
Di certo tra gli incontri fondamentali c’è quello con Michael Haneke («Se le chiedi di piangere in una scena, Isabelle è l’attrice che ti chiede su quale parola vuoi che scenda la lacrima», sostiene e non c’è motivo di non credergli). Conferma il suo amore in particolare per La pianista. «Haneke è un genio della precisione, vuole essere certo che ogni movimento risulti autentico. Dà molte indicazioni ma non mi dice molto su come recitare. Un’attitudine che si adatta bene a me». Interprete agli antipodi dell’immedesimazione. «Se il ruolo svela qualcosa di me? No, mai. Per me conta il piacere di farlo. Il cinema è il luogo che rende visibile l’invisibile, mi godo il qui e ora, non è un’occasione di indagare su me stessa».
I film
non svelano nulla di me, non sono assoluta-mente un’occa-sione per indagare
i miei sentimenti
Nessun dubbio a riguardo, neppure sul fatto che possa patire ansia da prestazione. «Tutti gli attori del mondo in teatro sono un po’ ansiosi. Io non particolarmente, non perché sia insensibile, ma sono fatta così. Al cinema non mi succede mai di avere sentimenti negativi, mi dà grande piacere, nessuna paura». Ci è voluto un regista come Patrice Chéreau per insegnarle a essere, o meglio, sembrare vulnerabile. «Sul set di Gabrielle mi ha insegnato a abbassare la testa, per dare l’idea della vulnerabilità».
Tra i connubi artistici in palcoscenico cita più volte Bob Wilson. «Sostiene che recitare è improvvisare. In realtà sono pochissimi i registi capaci di accogliere l’improvvisazione. A me piace lasciare credere che quello che vedono sia frutto di improvvisazione». E viene il dubbio che lo metta subito in pratica con una ragazza del pubblico. «Ti chiami Justine? Che bel nome. Eh sì, ho letto De Sade».
Emozione a casa Huppert fa rima piuttosto con precisione. Con cui negli anni, soprattutto al cinema, ha costruito personaggi che sfiorano il mostruoso. «Non li definirei mostruosi ma frutto di situazioni mostruose che li rendono così. Come attrice mi risulta più facile rappresentare l’ambiguità che la semplicità», ammette.
L’ansia da prestazione a teatro
è molto comune
tra i miei colleghi
Io non ne soffro mai, sono fatta così
Set e palcoscenico (per la cronaca, le critiche al suo ultimo Cechov sono state unanimi: «magistrale»), per lei pari sono. «A teatro sei in contatto con la platea, la chimica tra gli attori mentre tutto accade è unica. Ogni sera si crea e poi muore lì. Al cinema crei qualcosa che resta. Non nasce mentre reciti ma dopo, al montaggio, è tutto nelle mani del regista». Sarebbe divertente sapere cosa provano quando devono tagliare le sue scene.