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 2021  luglio 14 Mercoledì calendario

Saviano racontata Alfonso Giordano

Dodici magistrati si rifiutarono di presiedere la Corte d’Assise del maxiprocesso di Palermo, il più importante processo di mafia della storia; il primo storico processo che si poneva l’obiettivo di dimostrare l’esistenza di Cosa Nostra come organizzazione unitaria, strutturata, gerarchica. Dodici magistrati si rifiutarono di presiedere la Corte d’Assise del processo che vedeva, come imputati, tutti i maggiori capi dell’organizzazione, accusati degli omicidi più importanti accaduti nei decenni precedenti. Dodici magistrati si defilarono, ma poi arrivò Alfonso Giordano, e accettò.
Pensate siano stati codardi quei dodici magistrati? Che avessero tradito la loro funzione? Che la paura per un magistrato va a detrimento del suo ruolo? Troppo semplice. Prima dell’inizio del processo, nel 1986, Cosa Nostra aveva ucciso i magistrati Cesare Terranova, Rocco Chinnici, Ciaccio Montalto, Gaetano Costa. Poi ci sono i poliziotti, i politici, i sindacalisti uccisi, lasciati soli. Il sacrificio o il martirio non possono essere considerati condizioni che un poliziotto, un politico, un sindacalista, un magistrato deve accogliere per svolgere il proprio lavoro. Legittimo è sottrarsi al rischio di omicidio; il magistrato che, invece, lo raccoglie su di sé, sta accettando qualcosa che appare in coerenza con la sua funzione, ma che in realtà va ben oltre. Per questo Alfonso Giordano, valutando esattamente tutti i rischi che ai suoi colleghi avevano fatto decidere per il rifiuto, accettò senza dare del codardo a nessuno. Scelse di presiedere il maxiprocesso perché giustizia avvenisse, e del resto se Alfonso Giordano non avesse scelto con coraggio, probabilmente il processo non si sarebbe svolto a Palermo, e non si sarebbe svolto con una corte palermitana.
Ora che il giudice Giordano è scomparso, è necessario sventare il rischio di ricordarlo solo come un giurista coraggioso e integerrimo. Il Paese deve ad Alfonso Giordano molto di più di un riconoscimento morale. Per capire a cosa mi riferisco, basta osservare e capire il suo modo di agire, basta ascoltare le sue parole durante il maxiprocesso di Palermo. E intendo proprio la dolcezza della sua voce, la sua gentilezza mai irrigidita, la sua grazia che presidia tutto il processo, il più duro dei processi. Alfonso Giordano ha un compito abnorme, gigantesco, far rispettare le procedure, far effettuare gli esami e i controesami in un clima che rispetti il diritto e, soprattutto, non dare mai spazio al retro pensiero più insidioso di tutti, e cioè che la sentenza sia già scritta, che si saboti la difesa, che siano già considerati criminali e assassini gli imputati. Giordano riesce in quest’impresa impossibile.
Un giudice dai toni perentori, rigorosi e forti, che respinge domande, che chiede sintesi agli avvocati, rispetto degli orari, che riprende gli interventi irregolari con veemenza, avrebbe rischiato di irrigidire tutto. Giordano non ha nessun tono autoritario, riesce ad essere rispettabile e rigoroso semplicemente con la sua gentilezza, e la sua correttezza determina anche la capacità di tollerare le asperità dei confronti. Rigetta raramente le domande della difesa nei controesami; cerca, anche quando non le accoglie, di trovare una mediazione: fa sentire ogni parte coinvolta nel processo rappresentata e rispettata dalla sua presidenza. E chiunque conosca processi così complessi sa che è difficilissimo che questo accada. Giordano ha di fronte il gotha di Cosa Nostra, e lo affronta con il diritto. Non ha bisogno di metodi da prefetto autoritario, o da sceriffo punitore. Allo stesso tempo Giordano sa bene che Buscetta e le sue testimonianze sarebbero state il centro del processo; che la difesa degli imputati mafiosi avrebbe tentato di innervosirlo, di indispettirlo, ma deve permettere che gli avvocati pongano a Buscetta tutte le domande che considerano necessarie. Raramente si oppone e, quando non condivide, chiosa «lei, nella sua domanda, sta dando un’interpretazione, non sta riportando le parole del Buscetta, ma vediamo se è disponibile Buscetta a rispondere» lasciando, in questo modo, sempre possibilità di incontro tra le parti.
Secondo la procedura, gli avvocati possono proporre domande rivolte al collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta e il giudice può accoglierle o respingerle. Quello che accade ha davvero un significato simbolico importantissimo: quando l’avvocato rivolge le sue domande, Buscetta, irretito, infastidito, piccato si irrigidisce, rischiando di dare risposte secche o poco argomentate; Giordano, allora, non dice semplicemente «risponda!», come si farebbe in qualsiasi altro processo, ma ripete con la sua voce (e spesso facendo una sintesi migliorativa delle domande) ciò che gli avvocati stanno chiedendo, a quel punto Buscetta risponde.
Equilibrio
Giurista coraggioso e integerrimo, rispettò con equilibrio imputati e garanzie della difesa
Quando Totuccio Contorno, l’altro importantissimo collaboratore di giustizia, parla in modo concitato e ansioso, per non umiliarlo nel chiedere maggiore chiarezza, Giordano gli dice: «La prego, parli più lentamente, in modo che se ci sono frasi in siciliano io la tradurrò». Quando Buscetta si confronta con Pippo Calò, incontrando di fatto l’uomo che ha condannato a morte suo fratello, il grande mafioso traditore che è passato con i Corleonesi, la situazione è tesissima, e anche lì Giordano si dimostra uomo di diritto e di grande equilibrio; usa una strategia psicologica di profonda intelligenza e umanità: «Parli a me, non parli a lui» per evitare che si scontrino oppure «Non si preoccupi, questo è compito nostro», riferito a Calò che insinuava dubbi sulla valutazione delle testimonianze di Buscetta. Quando volano parole violente o di accusa, Giordano così interviene: «Non è utile che usi questi argomenti, continui a dirci la sua versione ché ci interessa di più».
Giordano è un direttore d’orchestra del processo dentro la musica del diritto, mai durante il maxiprocesso si supera la partitura del diritto. 475 imputati, 200 avvocati difensori, centinaia di nomi e fatti, omicidi e faide, ma Giordano riesce sempre a tenere sintesi, a chiarificare le situazioni, a gestire tutto. Durante le ore più difficili di confronto, gli imputati urlano dalle gabbie, ci sono scene di isteria, di autolesionismo. Giordano è addirittura costretto, durante il maxiprocesso, a chiedere di non fumare perché, non funzionando l’impianto di areazione, le persone iniziano a sentirsi male. Deve persino valutare la qualità dei microfoni. È lui a farsi carico di tutto senza mostrarsi mai né offeso, né diminuito nel suo ruolo quando deve occuparsi di cose che avrebbero dovuto gestire altri.
Il processo fu pieno di momenti simbolici, lo raccontano bene Pietro Grasso, che era al suo fianco come giudice a latere e Giuseppe Ayala che gestì direttamente in aula l’accusa del pool antimafia, laddove Falcone e Borsellino, per non personalizzare, non ci furono. Giordano conosce bene la sintassi di Cosa Nostra e sa bene anche come ogni singolo aggettivo o modo di dire sia interpretabile, quindi è sempre attento, misurato, pronto. Quando un mafioso si sente male, fa riprendere l’udienza non prima di aver detto: «Con l’augurio si tratti di un incidente di lieve importanza» perché tutti devono essere rispettati e sentirsi rappresentati da lui che, in quel luogo, è lo STATO.
Quando Michele Greco, prima che la corte si ritirasse in camera di consiglio per emettere la sentenza, chiedendo la parola dalle gabbie, disse: «Le auguro, Signor Presidente, pace, la serenità dello spirito e della coscienza, (…) base fondamentale per giudicare. Non sono parole mie, sono parole di Nostro Signore rivolte a Mosè», Giordano non si sentì intimidito, benché il messaggio fosse chiaro; non denunciò e, così facendo, difese la serenità del giudizio, a vantaggio della giuria popolare.
Compito abnorme
Erano in 475 alla sbarra, con 200 avvocati e centinaia di nomi e fatti: gestì tutto
La sentenza fu durissima: 19 ergastoli, pene per un totale di 2.665 anni di reclusione. Cosa Nostra fu per la prima volta sconfitta con il diritto e le sue verità svelate. Il lascito più grande di Alfonso Giordano è la dimostrazione che il diritto è grazia, che la disfunzione può essere gestita con la gentilezza, che il rigore non è compromesso se il giudice rispetta l’imputato e il suo diritto alla difesa.
Muore l’uomo che ha gestito forse il momento giudiziario più teso della storia della Repubblica italiana, che lo ha gestito nel modo migliore e che ha rappresentato meglio di chiunque altro, in quei giorni, il significato di giustizia democratica che può essere solo frutto del confronto, del diritto, del rispetto, dell’umanità.