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 2021  luglio 14 Mercoledì calendario

Cuba repressa


Colto di sorpresa da una sollevazione di piazza che non ha precedenti nell’ultimo mezzo secolo, il regime cubano sceglie la strada della repressione. Arresta centinaia di manifestanti, accusa gli Stati Uniti di «aver orchestrato provocazioni controrivoluzionarie», chiama alle armi i fedelissimi del regime e affida di nuovo a un Castro il compito di risolvere la crisi. «Alla riunione ha partecipato il generale dell’esercito Raúl Castro Ruz». Il comunicato di Granma, organo ufficiale del regime è scarno, ma segnala la gravità di una situazione che Cuba sta vivendo tra ansia, incredulità e paure. All’Avana, come in ogni altra città dell’isola, centinaia di poliziotti controllano ogni angolo della capitale per impedire nuove proteste, da lunedì internet, social media e piattaforme di messaggistica sono inaccessibili quasi ovunque.
Quella della repressione è la strada più facile, può avere successo nell’immediato, ma non cancella certo i sintomi di un malessere profondo, che tra crisi economico-sanitaria e voglia di libertà può rappresentare l’inizio della fine per il modello rivoluzionario che Fidel Castro e il fratello hanno imposto per 61 anni tra indubbi successi e grandi drammi, tra miti alimentati con cura e uno spietato pugno di ferro.
Il presidente Miguel Díaz-Canel, grigio epigono della Revolución, ripete vecchi slogan anti-americani, ma in un segnale di grande debolezza ferma giornalisti stranieri (la corrispondente dello spagnolo Abc, Camila Acosta è in carcere per non meglio specificati «reati contro la sicurezza dello Stato»), subisce le critiche del presidente Usa, Biden («quella dei cubani è una chiamata per la libertà»), delle Nazioni Unite («Cuba rispetti la libertà di espressione») e dell’Unione Europea («gli arresti sono inaccettabili»). Bernie Sanders, capofila della sinistra democratica Usa chiede di «eliminare l’embargo» ma ricorda ai governanti cubani «che tutte le persone hanno il diritto di protestare e vivere in una società democratica”» Raúl Castro, che dall’aprile scorso si era ritirato a vita privata, prova a gestire la complicata situazione ma il tempo (ha novanta anni) non gioca a suo favore. Negli ultimi tre anni, le caute aperture da lui stesso volute hanno cambiato molto velocemente le abitudini dei cubani e Internet e i social network – che sono stati il motore delle proteste di domenica scorsa – fino al 2018 erano quasi sconosciute alla stragrande maggioranza della popolazione. Per il regime, già alle prese con una situazione economica complicata e con l’embargo rinnovato dalla Casa Bianca di Donald Trump, aprire la rete era una priorità per modernizzare Cuba ma per la propaganda di regime si è rivelato presto un boomerang. I giovani ne hanno subito colto la potenzialità, come nel novembre scorso quando si sono mobilitati davanti al ministero della Cultura per il rilascio di un rapper anti- regime o tre mesi fa quando l’immagine di un dissidente ammanettato è diventata virale sui social. Da mesi a Cuba le due parole più ricorrenti sono “¿hasta cuando?” (fino a quando?). Da decenni pazienti verso un regime che in cambio della mancanza di libertà gli ha garantito la sussistenza, ora guardano con sfiducia al primo presidente che non si chiama Castro, pronti a battersi per un futuro diverso.