la Repubblica, 14 luglio 2021
Intervista a Tim Roth
CANNES – Al Festival dove ha debuttato con le Iene di Quentin Tarantino Tim Roth torna sulle tracce di Ingmar Bergman. L’attore britannico, 60 anni compiuti lo scorso maggio, è protagonista del film di Mia Hansen-Løve, una delle quattro autrici in corsa per la Palma, con Bergman island, film (in autunno in sala con Teodora) su una coppia di registi che si stabilisce per un’estate a scrivere sull’isola di Faro, iconica residenza del maestro svedese.
Com’è quest’anno il Festival?
«Ho vissuto la clausura in modo rigido, con l’unica eccezione di un piccolo film che ho girato in Nuova Zelanda, il posto più sicuro del mondo. L’atmosfera qui è lontana dagli altri anni, anche se è bello che il cinema riapra le porte da questo festival antico. Che tuttavia è ancora una formidabile occasione per giovani, c’è anche un amico di mio figlio con un corto. Si rischia, ma vale la pena».
Ha tanti ricordi qui.
«Vengo da oltre vent’anni, la prima con Le Iene, quando il tappeto rosso era molto più lungo e pensavamo di essere molto fighi, marciavamo a tempo con la musica del film, noi ragazzi del gruppo di Tarantino.
Pensavamo che fosse un momento perfetto e avevamo ragione. Negli anni sono stato in varie giurie, ricordo quella con Wong Kar-Wai presidente, con il mio amico Samuel L. Jackson e Monica Bellucci. Tanti viaggi, tante storie, tanti film. Alcuni buoni, altri terribili – non mi chieda quali – ed è stato meno piacevole».
Com’è stato entrare nel mondo di Bergman?
«Quando tentavo di fare l’attore con altri compagni a Londra passavamo le serate a vedere i film di Bergman, pensavamo fosse una cosa figa, ma quei film, i paesaggi, la fotografia, le storie, ci commuovevano. Non ci ho più pensato, poi un anno fa ho ricevuto questo copione magico, ambientato oggi ma connesso al passato. Non ho avuto dubbi. Ma io e mio figlio non eravamo preparati a quel che avremmo visto. Prendi l’aereo fino alla terraferma, poi quei sei minuti di traghetto che ti portano in un altro mondo fatto di oceano e quiete».
Ci sono autori per cui ha avuto un’ossessione?
«Ho lavorato con alcuni di loro. Ero innamorato di Coppola, con lui ho fatto un piccolo film complicato e strano, Un’altra giovinezza, per me era il paradiso. E poi Kubrick.
Truffaut. Altman. Ma in cima metto Ken Loach, che ha realizzato e spero giri ancora lavori straordinari, anche se con lui sono riuscito solo a fare la comparsa. Ma ho avuto l’onore di dargli la Palma d’oro nel 2006. Aveva fatto tardi ad arrivare al Palais perché rifiutava il volo di ritorno che gli avevano organizzato in prima classe, per motivi etici viaggiava solo in economica. Pioveva e lo ricordo correre, arrivare con lo smoking in un sacchetto di plastica, fradicio. Si è infilato il vestito mentre imboccava le scale verso la cerimonia, è salito sul palco ed è stato meraviglioso».
Perché ha deciso di fare l’attore?
«Per scherzo. Io e un mio amico eravamo ossessionati da Samuel Beckett. A scuola hanno iniziato a cercare di farci studiare
Aspettando Godot. Ci siamo trasformati in quello che pensavamo fossero i personaggi e facendo quella robaccia credevamo di essere divertenti, siamo andati all’audizione per una recita scolastica. Era uno scherzo. Ma la donna che dirigeva il dipartimento di teatro mi ha visto e mi ha fatto fare il provino di Dracula Spectacular, il musical. Ho dovuto cantare e ballare davanti a tutti i bulli della scuola. E sono stato picchiato dopo. Ma ho capito che era la mia strada. Anche ora penso a volte che sia un scherzo».
Ha ancora paura di restare disoccupato?
«Certo che ce l’ho. Mia moglie, che odiava il suo lavoro, ha scelto di occuparsi dei nostri figli. Non voglio fare cose in cui non credo, è la mia etica del lavoro. A volte puoi migliorare un film, a volte sei pessimo in uno buono. Sono stato fortunato perché avevo lavorato molto prima del lockdown e avevo messo da parte i soldi in banca per sopravvivere. Adesso ho fin troppi progetti».
Anche da regista?
«Ho una serie tv che vorrei dirigere e un lavoro su Shakespeare adattato per me da Harold Pinter. Mi dicevano che invecchiando si ha meno lavoro, per me è il contrario».