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 2021  luglio 14 Mercoledì calendario

Storia delle tute blu

Quasi più nessuno ormai racconta di operai, se non quando accadono gli incidenti sul lavoro, come se fossero diventati una categoria invisibile o estinta come i mammuth, per dirla con le parole di Antonio Pennacchi in un romanzo di qualche decennio fa. Eppure continuano a prestare manodopera, a subire una condizione ai margini, dove basta un messaggio WhatsApp per essere licenziati, com’è accaduto alla Gkn a Campi Bisenzio, vicino Firenze. Esistono, anche se non entrano nei canali d’informazione.
Si muovono uguali ai lavoratori dipinti da Fernand Léger in «Les Constructeurs» (1950), che indossano pantaloni sbiaditi e canottiere opacizzate dal sudore – uno solo ha i calzoni blu, in un gruppo che sorregge una trave pesante – ma dietro la grande impalcatura di metallo hanno lo sfondo di colore nella stessa tonalità del cielo mattutino. Questo monumentale olio su tela trasmette un’idea tutt’altro che evanescente del lavoro operaio: l’azione che compiono i personaggi è tipica di chi sta innalzando ponteggi perché i caratteri del moderno suggeriscono l’epica della progettualità. Lo avevano intuito i futuristi, agli inizi del Novecento, quando pensavano alla “Città che sale”: così intitolava Umberto Boccioni un suo movimentato quadro.
Gran parte del Novecento architettonico ha speso le sue migliori energie alla conquista degli spazi verticali, innalzando impalcature su cui camminano individui poco spaventati dall’altezza, salgono e scendono scale, spostano putrelle di acciaio, si attaccano alle corde, proprio come fanno gli operai carpentieri di Léger. Il quale sembra aver restituito dignità a una figura cruciale della modernità, a un personaggio conteso da scrittori, registi, pittori, che all’epoca del dipinto rischiava di essere schiacciato da una lettura troppo ideologica del suo ruolo, ridotto a pura marionetta nelle mani di chi intendeva combattere il fordismo. Così non è, e nel procedere del tempo «Les Constructeurs»anticipa di una trentina d’anni il racconto di un utensile, la chiave a stella, che Primo Levi mette nelle mani di Tino Faussone, montatore di gru, protagonista di un suo indimenticabile romanzo, uscito nel 1978. Anche in quest’opera si insiste sul tema dell’orgoglio operaio, che non significa rivendicazione o lotta di classe, ma dare spazio a un oggetto utile a innalzare gru fino al blu profondo del cielo, dove addirittura sarebbe possibile raccogliere la polvere caduta dalle stelle. Faussone è un collezionista di modernità, oltre che di arnesi. La sua è l’etica di chi non teme la fatica. Il suo raccontare è il manifesto di una civiltà tecnologica che non imbarazza, non indispone, non molesta e da cui l’umanità ne esce migliorata. La chiave a stella è un libro di un altro Novecento, alternativo a quello consueto, in cui industrializzare non coincide affatto con l’esercizio di sfruttare ed essere operai non significa provare insofferenza verso le regole del capitale. Qui sta la sua originalità.
Pochi altri autori hanno osservato i segni del moderno dalla stessa prospettiva: uno, forse, prima di lui, oggi dimenticato, su cui Elio Vittorini scommise la sua credibilità di editore. Sto parlando di Luigi Davì, meccanico tornitore per professione e autore di un libro a suo tempo celebrato, Gymkhana-Cross (1957), che narra di operai Fiat in sella a vespe e lambrette, soddisfatti del lavoro ai torni, felici di trovarsi nell’avventura tecnologica, con le sue liturgie, i suoi riti, che un’Italia prossima ad affacciarsi agli anni del benessere voleva celebrare in forma di nuova religione. Anche se con modalità diverse, Davì e Levi manifestano un sentimento di dignità e di fierezza, sono l’alfa e l’omega di una letteratura che li vede minoritari perché fra loro, in mezzo alle loro opere, si colloca un’affollata galleria di volti tristi e arrabbiati e non sarà per niente un caso se Italo Calvino, rivolgendosi per lettera a Vittorini il 15 maggio del 1956, metta Davì in contrapposizione a Ottiero Ottieri: il primo, diceva, destinato a darci «la faccia allegra e scooteristica del mondo industriale», il secondo, invece, definito «scrittore di carne triste». Di Ottieri, Einaudi stava pubblicando Tempi stretti (1957), un romanzo che risultava troppo documento per essere figlio dell’invenzione e troppo impressionato dalla lettura di un’opera immancabile nelle librerie di quegli anni: La condition ouvrière di Simone Weil (l’edizione italiana esce nel 1952). Più che di blu, il racconto della condizione operaia si tinge di nero, il colore della condanna e della morte. I personaggi sono rabbuiati dal senso di non appartenenza, da un disagio profondo, a cominciare da quell’Antonio Donnarumma, il protagonista del più noto tra i romanzi di Ottieri (Donnarumma all’assalto, 1959), che vorrebbe farsi assumere dalla Olivetti, a Pozzuoli, ma resterà per sempre deluso.
È come se la civiltà delle macchine, a cui quest’individuo bussa per esigere un posto, lo respingesse nel limbo della disoccupazione e della precarietà. La fabbrica non riscatta. E perfino uno scrittore lirico e antropologico come Paolo Volponi, cambiando contesti e geografie, ammette le difficoltà ad ambientarsi nella civiltà industriale per chi ha adoperato gli strumenti del lavoro contadino e conserva ancora le mani sporche di terra. Il suo “tuta blu”, Albino Saluggia, vive la solitudine di chi si trova a cerniera di due mondi, uno naturale e uno artificiale, e sa che indietro non si può tornare.
Ci chiediamo: perché gli scrittori di quegli anni si sono fatti intrappolare nella rete dei dubbi? Per quali ragioni hanno messo in scena storie di un controverso rapporto con il moderno? Vicende, cioè, in cui la fabbrica fa ammalare o rifiuta, tanto da generare in un osservatore intelligente come Cesare De Michelis il sospetto di antimodernità? Molti elementi potrebbero stare a monte di questa interpretazione conflittuale: visione incompleta del fenomeno, pregiudizio ideologico, paura del nuovo. E tuttavia le tre ipotesi non spiegherebbero a pieno titolo il motivo per cui rendere manifesta tanta ostilità fino al punto da sfociare nel racconto della rabbia operaia in Tuta blu (1978) di Tommaso Di Ciaula: storia di un disagio e di una ribellione neoluddista. Da qualche parte, ne siamo certi, è avvenuto il tradimento se è vero che Franco Fortini considerava gli operai la bandiera dell’Italia uscita vittoriosa dalla Resistenza e poi, però, cominciando l’età del consumismo, anziché il dissenso avrebbe constatato la loro obbedienza al verbo del capitalismo.
Da qualche parte la catena si è rotta e gli scrittori non se ne sono accorti. Il linguaggio della lotta, che infiammava di furori politici Vogliamo tutto (1971) di Nanni Balestrini, è cominciato a sparire dalle bocche dei nostri personaggi. Nella dimensione quotidiana, che spesso è agli antipodi rispetto alla dimensione letteraria, è probabile che l’operaio si sia lasciato conquistare dagli agi del progresso: lambrette, vespe, cinquecento, frigoriferi, lavatrici, televisori. Perché combattere il consumismo se il consumismo porta in dote queste morbidezze? È ora che la classe operaia vada in paradiso: lo recitava il titolo del film di Elio Petri, nel 1971. E un decennio dopo lo avrebbe dimostrato Lele Oriali, calciatore dell’Inter e della Nazionale, all’indomani del Mundial: lui, una vita da mediano, come indica la canzone di Ligabue, sgobbona presenza del centrocampo, diventando campione del mondo era andato in paradiso. Il successo mette le ali alla fatica, fa dimenticare i sacrifici e gli anni della leggerezza hanno celebrato fino in fondo la morte delle ideologie.
E anche la fine della Storia. A un certo punto, negli anni 90, ci siamo svegliati in un paesaggio di fabbriche dismesse. Le sirene che fino a poco prima coprivano «la città col sacrificio» – così le ricorda Antonio Riccardi in una poesia del 2004 –, non le ascoltiamo più. I luoghi della produzione si sono trasferiti altrove e le tute blu paiono sparite. Così non è. In un ipotetico dizionario della modernità, la «T» di Tuta Blu resta una lettera maiuscola del mondo del lavoro e contiene i segni di una civiltà che ha costruito la sua credibilità sulla fatica operaia.