Il Sole 24 Ore, 14 luglio 2021
Meno gas e barili dalla Russia
Gas e petrolio scambiano a prezzi record, spinti da una forte ripresa dei consumi. Eppure la Russia – fornitore chiave dell’Europa, di cui siamo ben lontani dal poter fare a meno – non ne approfitta. Da mesi Gazprom si limita ad esportare il minimo indispensabile per soddisfare gli obblighi contrattuali e le compagnie petrolifere russe estraggono meno di quanto consentito dagli accordi con l’Opec Plus: comportamenti che le teorie del complotto, per quanto suggestive, non bastano a spiegare e che secondo gli elementi raccolti dal Sole 24 Ore sembrano piuttosto dipendere almeno in parte da difficoltà produttive. Problemi che in assenza di una rapida soluzione potrebbero provocare ricadute pesanti sul mercato europeo.
Mosca infatti, nonostante gli sforzi di diversificazione compiuti dalla Ue, soddisfa ancora oggi oltre un terzo del nostro fabbisogno di gas (in Italia più del 40%) e per ragioni geografiche è uno dei maggiori fornitori di petrolio: nel nostro Paese l’anno scorso un barile importato su dieci è arrivato dalla Russia.
Gazprom potrebbe anche aver messo in atto una strategia deliberata, una sorta di «ricatto» come lo definisce l’Ucraina: centellinare l’offerta di volumi extra di gas in Europa servirebbe a dimostrare la necessità del Nord Stream 2, spingendo le isituzioni Ue a rimuovere gli ultimi ostacoli all’entrata in funzione del gasdotto del Baltico. Ma teorie analoghe non reggono nel caso del petrolio. La vulgata vuole anzi che nell’Opec Plus la Russia sia tra i più determinati nel chiedere un’ulteriore apertura di rubinetti.
I dati ufficiali raccontano un’altra storia, quella di un Paese che invece fatica ad esaurire la quota assegnata dagli accordi della coalizione. Tra greggio e condensati, la produzione russa invece di aumentare sta calando da mesi: una tendenza che alimenta il dubbio che alcuni vecchi giacimenti siano stati rovinati dalla rapida e prolungata chiusura dei pozzi imposta dai tagli Opec Plus, mentre lo sviluppo di nuove risorse è rimasto frenato in parte per colpa dalle sanzioni internazionali (che si concentrano in modo particolare sulle tecnologie per l’Oil & Gas) e in parte a causa dal Covid, che tuttora infuria in diverse regioni minerarie della Russia: un problema che tocca non solo il petrolio, perché tra le aree con i maggiori contagi – addirittura quadruplicati da maggio – c’è la penisola di Yamal, in Siberia Occidentale, da cui arriva gran parte delle forniture di gas dirette in Europa.
Proprio sul gasdotto da Yamal Gazprom ha pianificato lavori di manutenzione tra il 6 e il 10 luglio, mentre dal 13 al 23 tocca al Nord Stream 1, per una riduzione complessiva dei flussi di almeno 2 miliardi di metri cubi questo mese. Nonostante questo il gigante russo – per il terzo mese consecutivo – non ha prenotato capacità extra per il transito del gas via Ucraina: soluzione più costosa di altre, ma comunque ampiamente ripagabile con il prezzo del gas ai massimi storici sul mercato europeo, con punte oltre 38 €/MWh nei giorni scorsi al Ttf.
Anche il consorzio Yamal Lng, controllato da Novatek, ha intanto comunicato un fermo per manutenzione tra il 1° e il 19 agosto, ennesima complicazione per l’Europa, dove gli stoccaggi di gas sono tuttora vuoti a metà: un livello pericolosamente basso per questo periodo dell’anno.
La stessa Gazprom non sta facendo scorte per l’inverno al ritmo che ci si aspetterebbe. La società non fornisce cifre precise, ma Elena Burmistrova, ceo di Gazprom Export, lo scorso 20 maggio aveva confermato ritardi nel ristoccaggio: «Di solito cominciamo a iniettare gas ad aprile, ma quest’anno abbiamo prelevato fino alla fine di quel mese». La primavera è stata molto fredda, si è giustificata Burmistrova, e vista la forte richiesta si è preferito privilegiare le forniture ai clienti. Una spiegazione che solleva il sospetto di una produzione insufficiente, altrimenti Gazprom avrebbe forse soddisfatto entrambe le esigenze: servire i clienti e accumulare scorte.
Anche il fitto calendario di manutenzioni suscita qualche perplessità. Mikhail Krutikhin, partner della società di consulenza moscovita RusEnergy, ricorda che nell’estate 2005 si era verificata una situazione simile: in un periodo di forte domanda Gazprom faticava a rifornire sia il mercato domestico che quelli di esportazione, dunque aveva fermato qualche “tubo”. Anticipare (o posticipare) manutenzioni a seconda delle condizioni del mercato d’altra parte è la norma nel settore dell’Oil & Gas.
Gazprom non ammette alcuna difficoltà. Anzi evidenzia di aver aumentato del 25,7% le forniture ai clienti non-Cis (Europa e Turchia) nel primo semestre, raggiungendo quota 99,9 miliardi di metri cubi (bcm): volumi superati in passato una sola volta, nella prima metà del 2018, quando si era spinta al record di 101,2 bcm. Il dato è comunque fuorviante: a parte il fatto che il confronto è con l’anno del Covid, non è dato sapere quanto gas sia stato prelevato dalle scorte, né se Gazprom abbia in parte rivenduto gas acquistato da altri produttori (come talvolta ha già fatto). È invece noto – perché lo afferma la stessa Gazprom – che le sue forniture all’Europa l’anno scorso sono diminuite di oltre il 10% a causa della pandemia, a 179 bcm, e che la guidance per il 2021 è (tuttora) ferma a 175-183 bcm. Come se la società si aspettasse consegne ridotte anche nei prossimi mesi, quanto meno al Vecchio continente.
Anche sul mercato del petrolio intanto crescono i dubbi sulla reale capacità della Russia di aprire i rubinetti, come afferma di voler fare. Gli ultimi dati del Cdu-Tek, che fa capo al ministero dell’Energia, indicano che a giugno la produzione è scesa a 42,46 milioni di tonnellate, equivalenti a 10,42 milioni di barili al giorno, il minimo da marzo. Per quanto riguarda gli impegni con l’Opec Plus l’interpretazione non è facile, poiché le cifre ufficiali non distinguono tra greggio (cui si applicano i tagli) e condensati. Ma se le proporzioni sono rimaste costanti, Mosca ha estratto solo 9,489 mbg di greggio, calcola Bloomberg, dunque meno della sua quota che era di 9,457 mbg. L’agenzia Interfax riferisce inoltre che nella prima metà di quest’anno l’export di petrolio russo fuori dall’ex Unione Sovietica è calato del 12,1% rispetto allo stesso periodo del 2020, a 104,06 milioni di tonnellate.
Non tutti gli esperti concordano sull’ipotesi che Mosca abbia perso capacità produttiva e le stime sono molto eterogenee: su sei analisti consultati da Bloomberg, il più ottimista – Bcs Global Markets – ritiene che nel giro di 6-12 mesi le compagnie russe possano riattivare 950mila bg di produzione, Fitch all’estremo opposto stima un margine di appena 500mila bg (la stima media è di 700mila bg). È certo comunque che il patto con l’Opec Plus ha spinto la Russia a tagli di produzione non solo ingenti (fino a 2,5 mbg) ma molto prolungati (oltre due anni): una sfida tecnica con pochi precedenti, che rischia di aver danneggiato per sempre alcuni giacimenti, tenuto conto della geologia e delle condizioni climatiche estreme del Paese. L’ultima volta che accadde qualcosa di simile risale ai tempi della dissoluzione dell’Urss, quando la produzione petrolifera russa crollò da un picco di 11,4 mbg nel 1987 a un minimo di 6 mbg nel 1996. Per tornare ai livelli precedenti ci sono voluti più di due decenni e investimenti miliardari.