Il Sole 24 Ore, 14 luglio 2021
Su 10 miliardari al mondo nove sono statunitensi
Ci sono Jeff Bezos e Elon Musk. E Bill Gates e Mark Zuckerberg. A tenere i conti, costantemente aggiornati da Bloomberg, oggi quattro dei primi cinque e nove dei primi dieci super-miliardari al mondo sono americani, un exploit interrotto solo dal francese Bernard Arnault. La fortuna personale combinata, per questo poker di assi della ricchezza, che sfiora i 700 miliardi di dollari.
Può, certo, essere considerato un simbolo del generale primato dell’economia statunitense, che oggi sta spezzando la morsa della crisi da pandemia. Ma è anche il volto – o meglio i volti – di quello che dai critici è denunciato come un altro genere di virus, quello di eccessive corse a diseguaglianze di patrimoni e redditi, influenza e potere. Nonostante promesse di correzioni con interventi pubblici progressisti o soluzioni di mercato conservatrici, è una realtà divenuta ancor più drammatica all’ombra del coronavirus: quasi un terzo della ricchezza negli Stati Uniti è adesso in mano all’1%, mentre il 50% meno abbiente si spartisce
il 2 per cento.
L’identikit di questo 1% è fatto di nomi noti e meno noti. In vetta, nei censimenti nazionali di riviste quali Forbes, si contano dietro ai primattori quasi 400 tra personaggi e famiglie che sfoggiano fortune vecchie e nuove. Da dinastie quali i Walton di Walmart e i Koch, che hanno fatto storia tanto nell’industria quanto per con i loro finanziamenti a centri di ricerca conservatori. Fino ai fondatori di Google, Larry Page e Sergey Brin. Ma l’elite allargata arriva ad 1,3 milioni di nomi, oppure, per i meno selettivi, ad 1,6 milioni.
Veterani o neofiti, i super-miliardari possono rivendicare gli Stati Uniti quale patria per eccellenza nel post-pandemia. UBS nel suo Global Wealth Report ha stimato che nell’ultimo anno l’America abbia contribuito ben un terzo dei 5,2 milioni di neo-milionari mondiali, vale a dire 1,7 milioni per un totale nazionale di 22 milioni. È uno sprint che non accenna a fermarsi: nei prossimi cinque anni dovrebbe aggiungerne 6,1 milioni, battendo di gran lunga la Cina.
Stando a un rapporto di Knight Frank, gli Usa si fregiano anche del record mondiale dei cosiddetti UHNWI, “ultra high net worth individuals” con patrimoni variamente stimati in almeno 30 o 50 milioni. E se queste rarefatte statistiche spesso peccano di scarsa trasparenza, mostrano comunque la crescente esclusività del club americano dell’1%: per entrarvi a titolo individuale, asserisce Knight Frank, servono almeno 4,4 milioni di dollari, alle spalle di due paesi rifugio per eccellenza Monaco e Svizzera. Secondo altre statistiche, a la barriera sarebbe ben più alta a livello familiare: oltre 11 milioni.
Il confronto con i “ranghi” inferiori nelle fortune personali e familiari è impietoso. Nel 2019, prima dello shock da pandemia, la ricchezza mediana negli Usa era di 121.700 dollari. Con sperequazioni razziali che vedevano l’85% della ricchezza del Paese detenuto da bianchi (patrimonio mediano 171.000 dollari) e il 4,1% da afroamericani (17.000).
La spirale di squilibri, sommati a diminuzioni della mobilità sociale che hanno eroso lo stesso “sogno americano”, ha innescato un dibattito sulla pioggia di vantaggi fiscali – e di lobby e di ottenere favori politici – che può gonfiare queste cassaforti. In gioco sono finite oggi a tutto campo le strategie economiche, comprese quelle della Fed che pure è tra le istituzioni che analizza super-ricchi e diseguaglianze. Karen Petrou, del think tank Federal Financial Analytics e autrice di un libro-denuncia sulla Banca centrale, ha messo sotto accusa dalle colonne del New York Times le mosse non convenzionali di Quantitative easing hanno qui avrebbero avuto effetti assai tradizionali: quelli di avvantaggiare i prezzi azionari – il 54% dei titoli è appannaggio dell’1% – ben dieci volte più della prosperità economica.