il Fatto Quotidiano, 14 luglio 2021
Gli incendi ci costano un miliardo l’anno
Temperature che salgono di molti gradi sopra la media , attività fulmigena molto intensa, il bosco che inizia a bruciare, con fiamme che diventano veramente difficile estinguere. È quello che è accaduto in Canada, dove a causa delle ondate di calore e degli incendi sono morte pochi giorni fa centinaia di persone. “Ciò che è avvenuto a nord di Vancouver in letteratura si chiama Ewe, Extreme wildfire event, spiega Raffaella Lovreglio, docente all’Università degli studi di Sassari e referente per la comunicazione del gruppo di lavoro della Società Italiana di Selvicoltura ed Ecologia Forestale che si occupa di gestione degli incendi boschivi. Si tratta di eventi “piroconvettivi” a comportamento erratico e imprevedibile, con formazione di pirocumulonembi (tipo di cumulonembo che si forma al di sopra di intense fonti di calore) derivanti dall’interazione tra incendio e atmosfera. Sono fenomeni sicuramente in parte legati alla crisi climatica in corso, tanto che Giorgio Vacchiano, ricercatore e docente in gestione e pianificazione forestale all’Università Statale di Milano parla di possibile inizio dell’età del Pirocene, “in cui l’aumento dei gas a effetto serra e l’alterazione del clima a scala planetaria rischiano di generare un nuovo aumento degli incendi estremi in tutto il mondo”.
Ma se il Canada appare relativamente lontano, non va dimenticato che anche da noi quest’anno sono giunte anticipatamente le prime ondate di calore, con un’eccezionale corrente africana e un anticipo della stagione degli incendi di almeno 15 giorni rispetto alla media 2008-2020 (come si legge sul sito Europen Forest Fire Information System)”. Eppure, nonostante l’aggravarsi degli eventi, nel nostro paese, spiega sempre Lovreglio, “la gestione del fenomeno continua ancora a puntare su strategie puramente difensive”. In pratica, il controllo di base contro gli incendi, in Italia, si basa prevalentemente sull’estinzione, attraverso strutture antiincendio capaci di intervenire tempestivamente attraverso squadre da terra e per via aerea. Un sistema che, oltre ad essere costoso – si stima che il costo annuale tra Stato e Regioni si avvicini a un miliardo di euro – non è in grado, secondo gli esperti, di contrastare i focolai multipli in condizioni avverse. Come se non bastasse, su questo fronte nulla è arrivato dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza Next Generation Eu. L’iniziale proposta di dotazione finanziaria di 1 miliardo di euro da spendere in progetti di Forestazione e tutela dei boschi è stata azzerata, facendo riferimento ad altri fondi, quelli Feasr (Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale), che “però hanno come obiettivo la gestione forestale ma non nello specifico la prevenzione pertanto hanno una diversa governance di attuazione”, puntualizza la docente.
Le competenze? Divise tra mille istituzioni
Il primo problema di fondo della gestione degli incendi boschivi nel nostro paese riguarda la questione delle competenze, che è attribuita alle Regioni; così ciascuna di queste si organizza in base alle proprie esperienze ed al proprio personale e gli esiti sono diversi e frammentati. “Il coordinamento si è poi reso ancora più complicato ”, spiega Giorgio Vacchiano, “da quando l’assetto istituzionale del settore è stato radicalmente modificato dalla legge 124/2015 (legge Madia di riforma della pubblica amministrazione), e in particolare dal decreto legislativo 177/2016 (sempre governo Renzi)”.
Con il decreto si è infatti militarizzato il Corpo Forestale dello Stato (Cfs) inglobando forzatamente 7.177 dei 7.781 dei suoi dipendenti nell’Arma dei Carabinieri, con la creazione del Comando Unità per la Tutela Forestale, Ambientale e Agroalimentare (Cutfaa). “Siamo l’unico paese in Europa (e probabilmente nel mondo) ad aver demandato alla responsabilità delle Forze Armate tante e tali funzioni tecnico-amministrative nel settore forestale”, spiega Raffaella Lovreglio. Così, nelle Regioni a statuto ordinario (sono escluse quella a statuto speciale) attualmente le competenze risultano divise tra le regioni, che programmano le attività di prevenzione e quelle di lotta attiva; i Vigili del Fuoco (Vvff), che hanno responsabilità in materia di lotta attiva contro gli incendi e spegnimento con mezzi aerei; il Dipartimento della Protezione civile con il Centro Operativo Aereo Unificato a cui è affidato il coordinamento dei mezzi della flotta aerea antincendio dello Stato; il Cutfaa, al quale è attribuita la repressione delle attività legate agli incendi. Infine c’è anche la neo-creata Direzione Foreste del ministero delle Politiche Agricole, Forestali e Alimentari. “In breve, per gestire un problema che per sua natura , seppur complesso, dovrebbe essere affrontato con modalità unitarie, non separando la prevenzione dalla lotta, monitoraggio e repressione, sono coinvolti una molteplicità di attori ovvero la presidenza del Consiglio dei Ministri, da cui dipende la protezione civile, 3 ministeri, 19 regioni e 2 province autonome”.
Peggio la scarsa prevenzione che i piromani (pochi casi)
Nonostante questo sostanzioso apparato, sul fronte incendi in Italia si agisce quasi esclusivamente sulle conseguenze e poco sulla prevenzione. Questo rende difficile anche l’individuazione delle cause. Il primo Rapporto sullo Stato delle Foreste del 2019, realizzata dal Comando Unità per la Tutela Forestale, Ambientale e Agroalimentare dell’Arma dei Carabinieri riporta che, su circa 7.800 incendi verificatisi in quell’anno, sono state denunciate per illecito penale solamente 563 persone, di cui 429 per incendio colposo. In queste statistiche, l’incidenza di cause dubbie è piuttosto elevata, soprattutto per gli incendi dolosi (ben il 57%). Ricerche recenti hanno evidenziato che le cause colpose potrebbero essere più frequenti di quelle dolose (54% contro 42%, rispettivamente), tra cui l’ampliamento, apertura o rinnovazione del pascolo a spese del bosco, seguita dall’eliminazione imprudente di residui vegetali forestali ed agricoli, la ripulitura di incolti e la caccia o il bracconaggio. Invece, secondo gli esperti, la motivazione relativa ad eventi causati da persone con turbe psicologiche comportamentali, come la piromania, è all’ultimo posto a riprova che si tratta di casi minimi ed isolati.
Ma come andrebbe fatta la prevenzione degli incendi boschivi? Molti sono i fronti su cui agire. Ad esempio, spiega sempre Lovreglio, “rafforzare la resilienza delle comunità direttamente esposte alla minaccia del fuoco; ridurre il carico di combustibile in tutto lo spazio potenzialmente interessato da eventuali incendi; rafforzare la resistenza delle aree boscate, mediante interventi di selvicoltura preventiva (diradamenti, potature, decespugliamento localizzato, fuoco prescritto, pascolo, sostituzione di specie)”. Questi punti in parte sintetizzano il concetto di Fire Smart Territory, un modello concettuale innovativo e rivoluzionario di pianificazione a livello di territorio che tende ad aumentarne la resilienza complessiva e a rafforzarne la resistenza.
Fuoco, autoproteggersi si può, ecco come
Rispetto agli incendi boschivi, però, come cittadini non siamo del tutto inermi e possiamo essere proattivi, ad esempio, con misure di autoprotezione. Ce le spiega un esperto sul campo, Luca Tonarelli, Direttore tecnico del Centro di Addestramento Incendi boschivi della Regione Toscana. “In questi ultimi anni stiamo lavorando moltissimo sull’autoprevenzione e sulla consapevolezza del rischio di coloro che vivono o risiedono per periodi in case nel bosco a contatto del bosco”, spiega. Molte sono le cose che si possono fare. “Anzitutto, i primi dieci metri intorno alla casa devono essere sgombri da piante infiammabili o da cataste di legno o gazebo di legno. Lo spazio difensivo è considerato però fino ai trenta metri. In questa zona le piante devono essere a due metri di distanza le una dalle altre, le chiome devono essere rialzate da terra per due metri e mezzo, inoltre sarebbe bene tenere umido il prato con un buon impianto di irrigazione”. Ma in caso di incendio vicino o in arrivo è meglio evacuare la casa o confinarsi dentro? “Le statistiche dicono che si infortuna e muore di più chi scappa: le evacuazioni vanno bene esclusivamente quando la via di fuga è davvero sgombra. Il problema è che non esistono vie di fuga segnalate né la certezza che la via di fuga sia davvero tale. Allora meglio stare in casa, ma non chiudendosi in bagno, facendo invece una vigilanza attiva: aprire l’acqua, mettere asciugamani bagnati alle finestre, stare pronti con secchi d’acqua o estintori a fermare le eventuali fiamme o elementi combusti che riescono ad entrare. Il fronte del fuoco dura alcuni minuti, ma dopo l’impatto se ne va. In generale poi, dobbiamo agire sul fronte della gestione forestale e cercare di tenere il bosco più pulito possibile, anche con l’aiuto dei piccoli proprietari: in Toscana stanno nascendo le prime ‘fireways communities’, dove tutti i proprietari lavorano sulla prevenzione”.
Ma se l’incendio ci sorprende all’aperto, come comportarci? “Fondamentale”, spiega sempre Tonarelli, “è vedere se si ha il vento in faccia oppure no, perché in quel caso vuol dire che l’incendio arriverà verso di voi: quindi non bisogna mai trovarsi con un incendio che viene incontro oppure su un crinale con l’incendio che sale. Se si è al mare, la spiaggia è un buon rifugio, lo stesso vale per la piscina”. Infine, quale il numero da chiamare? “Ci sarebbe il numero specifico regionale, oppure il 112 numero unico o il 115, cioè i Vigili del fuoco. È importante saper dare informazioni sull’incendio, magari fornire coordinate e foto”.
Unica buona notizia in questo ambito drammatico è che l’Italia è uno dei paesi con la più grande flotta antiincendio: abbiamo attualmente 19 Canadair, 4 elicotteri da 9.000 litri più una serie di altri mezzi concessi da Marina, guardia costiera, esercito, più le flotte regionali. “Il problema insomma non sono i mezzi, ma la mancanza di una cultura e di una consapevolezza del rischio crescente, sia da parte dei cittadini che soprattutto delle istituzioni”.