Corriere della Sera, 13 luglio 2021
Un’altra intervista a Matteo Berrettini
LONDRA Mister Berrettini? Welcome. Al terminal dei voli privati stavano aspettando il finalista italiano di Wimbledon, dopo la sfida con il numero uno del mondo Novak Djokovic Matteo è un volto noto anche in Inghilterra: il Guardian l’ha definito «valiant» (audace), l’editorialista del Times ha scritto che i suoi fondamentali sono «ordnance», armamenti. Il match trasmesso in chiaro da Sky su Tv8 ha avuto ascolti record (4.700.000 spettatori medi cumulativi), è chiaro che domenica 11 luglio 2021 segna l’inizio di una storia diversa per il ragazzo del Nuovo Salario, Roma, e per tutto il tennis italiano («Il successo di un campione e di un sistema» l’ha definito il presidente della Fit Binaghi).
La giornata di sport di Berrettini tra Wimbledon e Wembley è stata lunga e la notte piccolissima, è mattina presto quando la barbetta elettrica del primo azzurro in finale sui prati di Church Road in 144 anni di leggenda si affaccia sul jet che lo porterà a Ciampino: «Ho organizzato tutto io con i miei potenti mezzi» scherza. In realtà il volo privato è un regalo dello sponsor.
Matteo, tornato in Italia cosa le resta addosso del pomeriggio più importante della sua vita sportiva?
«Un delirio di belle emozioni, tra cui è difficile scegliere».
Ci provi.
«Be’ il momento in cui ho chiuso 7-6 il primo set della finale con Djokovic è stato speciale: urlavo di gioia ma non riuscivo a sentire la mia voce, il boato del centrale di Wimbledon la sovrastava».
E dopo l’adrenalina di Wimbledon, Wembley.
«Sono arrivato nell’intervallo di Italia-Inghilterra, quando perdevamo 1-0. Non ho fatto in tempo ad entrare nella lounge alle spalle della tribuna d’onore, che mi è venuto incontro il presidente della Repubblica Mattarella. Lui a me! Mi ha colto di sorpresa... Complimenti, mi ha detto, ho visto i primi due set della tua partita, sei stato pazzesco...».
Il presidente della Repubblica ha detto proprio «pazzesco»?
«Giuro, lo ha detto!».
E poi?
«Poi non ci ho capito più niente. È sbucato Fabio Capello e mi ha abbracciato: io so chi è Capello, ovviamente, ma non ci eravamo mai visti in vita nostra! C’erano presidenti, istituzioni, vip, ex calciatori... A un certo punto sono spuntati Shevchenko, Figo, Beckham a cui ho stretto la mano. Una confusione incredibile! Tante emozioni tutte insieme. Troppe».
Ieri il Quirinale e Palazzo Chigi: come vive le attenzioni un giovane romano riservato e taciturno come lei?
«Io sono una persona molto privata, ormai mi conoscete. Essere al centro dell’attenzione non mi piace particolarmente e quando sono troppo esposto mi viene addosso una sensazione di disagio, come se sentissi di non meritarmi tanti complimenti. Però credo che la finale a Wimbledon abbia scritto un po’ di storia del nostro tennis, forse le attenzioni di questi giorni un po’ me le sono meritate...».
Attenzioni e premi sono graditi, quindi.
«Con grande piacere. Non mi succede tutti i giorni di incontrare le cariche più importanti dello Stato».
In campo e fuori sembra sempre così composto e rilassato, Berrettini.
«Magari! Sembro sereno, ma poi ripenso alle cose e non riesco a dormire, rimugino per giorni. Gestire le emozioni intense di una finale sul centrale di Wimbledon, per esempio, non è stato affatto facile. Per calmarmi ho pensato alla strada per arrivare fino a lì, al lavoro, alle trasferte, ai mesi lontano da casa e dalla famiglia. Mi ha aiutato a sentire che mi meritavo quella partita, che era giusto che fossi in quel luogo, contro quell’avversario. Perché mi sono impegnato: io sono la dimostrazione che il lavoro paga».
Oltre alle vittorie, cosa la fa stare bene?
«I miei genitori, a cui devo tutto: senza di loro non sarei quello che sono diventato. Mio fratello Jacopo, che mi convinse a lasciare il judo per il tennis: non potrò mai ringraziarlo abbastanza. La mia ragazza Ajla, gli amici».
Chi sono i suoi amici?
«Quelli di sempre, degli inizi. Io sono un tipo abitudinario: magari ci metto un po’ a decidere di fidarmi però quando sono a mio agio non cambio più. Il mio coach, Vincenzo Santopadre, mi allena da quando avevo 14 anni. Ero un bambino. Sono ancora in contatto con i miei primi maestri e con i compagni della scuola tennis».
I titoli dei giornali, le interviste, i grandi guadagni, la gente che la tirerà per la giacchetta: non c’è il rischio di perdere la testa, Matteo?
«No, non credo. Le cose succedono però dovrò essere bravo a ricordarmi di essere solo un giocatore di tennis: ho cominciato per il piacere di usare la racchetta, per il divertimento di vincere un match, non certo per avere successo. Non vivo per questo. Questi sono giorni euforici ed è giusto così, ma presto mi rimetterò sotto a lavorare».
Ha citato Ajla, la sua ragazza: quanto è stato importante averla con sé dentro la bolla di Londra? Quanto è importante, in generale, per il benessere che poi riversa in campo?
«Ajla è stata fondamentale. La bolla di Wimbledon era molto restrittiva, per due settimane ho fatto hotel-circolo e circolo-hotel. Avere un affetto accanto, passare il poco tempo libero con la persona che ti è più cara, è decisivo. Da tennisti giramondo, non ci vediamo tutti i giorni: i tornei per noi sono un’occasione per stare insieme. Anche a Londra siamo entrati dentro la relazione a tutti gli effetti: durante Wimbledon abbiamo litigato, fatto pace, riso, discusso, scherzato. Non è facile. Però è importante».
Ha raccontato che aver trascorso il lockdown dell’anno scorso con Ajla in Florida l’ha aiutata a crescere.
«È vero. Ho sperimentato la convivenza: tra alti e bassi, è stata un’esperienza molto intensa e molto bella. Ho capito che devo migliorare in tutti gli aspetti del rapporto con la mia ragazza e ho intensificato, a distanza, la relazione con i miei genitori. Tutti dettagli che mi sono serviti moltissimo anche nel tennis».
Che bambino è stato, alla fine degli anni Novanta, a Roma?
«Un bambino che a tennis pensava di essere scarso. Ci ho messo un po’ ad appassionarmi: mio fratello Jacopo, come ho detto, è stato decisivo. Siamo molto uniti: non a caso porto tatuata la sua data di nascita».
E quando ha capito di non essere malaccio?
«Nel 2016, a vent’anni, quando ho raggiunto la prima finale Challenger in Puglia, mi sono detto che forse, per vivere, potevo fare il tennista. Ma ho iniziato a crederci sul serio nel 2019, con la semifinale contro Nadal all’Open Usa. A New York ho capito che a un certo livello ci potevo stare, però da quel punto in poi andava creata una continuità di rendimento».
Ed eccoci a Wimbledon. Se potesse rigiocare la finale, cosa farebbe di diverso?
«In termini di qualità, posso fare meglio. Ma non è tanto questione di un colpo o di un momento della partita: la sfida più grande per me era gestire aspettative, pressione ed emozioni, perché a tutto ciò poi si lega il livello del gioco. Con una presenza diversa, certe palle non sarebbero finite in rete o fuori. Ma, insomma, Djokovic era alla trentesima finale Slam, io alla prima! La prossima volta sarò più bravo».
A un certo punto, dopo un errore, stava per scagliare la racchetta per terra. Si è frenato, non l’ha fatto: perché?
«Ci tengo a essere corretto, nei miei confronti e dell’avversario: la sportività, anche nella fatica e nella lotta, per me è fondamentale».
Con il diabolico Djokovic cosa vi siete detti?
«Novak è incredibile: le sfide con lui mi fanno crescere inevitabilmente. L’ho rivisto a Wembley la sera, mi ha detto: bravo Matteo, hai il futuro davanti. Poi è arrivato Capello e si è buttato in mezzo per fare una foto tra noi due!».