il Fatto Quotidiano, 13 luglio 2021
Storia e meriti della conchiglia pellegrina
Di animali marini ce ne sono tanti ma in pochi sono dotati di bellezza e perfezione come la conchiglia di San Giacomo. Questo esemplare, della famiglia dei pettini, oltre ad essere un instancabile viaggiatore cela peculiarità disattese. Lo rivela nel libro Storia della conchiglia pellegrina. La sentinella dell’oceano (Add Editore) il biologo marino Laurent Chauvaud. La conchiglia di San Giacomo, oggetto dei suoi studi da oltre 30 anni, deve il nome al figlio del pescatore Zebedeo, San Giacomo appunto: l’apostolo pellegrino il cui feretro, dopo il martirio, venne portato in Galizia, divenuta poi meta del cammino di Santiago. Il suo simbolo infatti è la conchiglia. Gli stessi pellegrini, fin dal Medioevo, la indossavano tra i capelli o sui vestiti mentre si recavano al suo sepolcro. Ma in questa storia l’agiografia conta poco. La protagonista indiscussa è la nostra conchiglia, che ha macinato così tanti chilometri da essersi diffusa su tutto il Pianeta senza rinunciare alle sue comodità. Si potrebbe definire una conchiglia ultra-snob: “non ama le acque profonde”, detesta le rocce, “si tiene saldamente aggrappata alla costa” e infine “quando ha trovato il suo materasso dei sogni se la prende comoda, filtrando l’acqua di mare per dieci, vent’anni”. Oggi la si trova sui fondali degli arcipelaghi norvegesi, in Spagna, Marocco, Sudafrica, Australia, Nuova Zelanda, Giappone e immancabilmente in Bretagna, dove si ritiene si sia diffusa originariamente. La sua comparsa risale a 25 milioni di anni fa nell’Atlantico. Da allora il suo fascino ha attraversato i millenni, catturando l’attenzione di tanti, specialisti e non. Di lei ne ha scritto Aristotele ed è sempre lei ad aver ammaliato Botticelli che l’ha ritratta ne La nascita di Venere. Tuttavia la conchiglia di San Giacomo di peculiarità che la rendono unica ne ha anche altre. Oltre al fascino del manto rossiccio, del “bianco immacolato all’interno” e del “guscio plissettato di linee eleganti”, il suo scheletro funge da “archivio ambientale”. Una sorta di termometro, di macchina per viaggiare nel tempo. Un albero del mare con le sue cicatrici, che custodisce un bagaglio di informazioni tale da parlarci di noi, dello stato di salute del nostro Pianeta. Chauvaud ci racconta di questa scoperta, della natura sottomarina che prima di essere scienza è semplicemente bellezza: “Ho vissuto – dice – la vita degli uomini che si innamorano e poi scoprono la poesia”.