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 2021  luglio 11 Domenica calendario

La vita di una ballerina è connessione

No, non è «disciplina» la parola che dà il titolo alla vita e alla carriera di una ballerina. È piuttosto «connessione». Con il pubblico, la compagnia, i maestri, i coreografi, i musicisti, il passato e il senso della storia che stai raccontando.
Solo questo senso di essere la parte di un tutto ti fa superare i piedi sanguinanti, la schiena che deve disegnare un arco sempre più perfetto, al di là del limite, l’ossessione che ti trova alla sbarra a notte fonda, quando ormai in sala prove non c’è più nessuno e tu davanti a uno specchio sterminato ripeti mille volte ogni gesto, anche quello del mignolo di una mano.
Una responsabilità tremenda, un metodo, che parte dai primi anni in cui scegli di fare questo mestiere – perché se non lo scegli e non lo ami non arrivi da nessuna parte.
Tutto intorno a te, all’inizio e magari anche dopo, ti scoraggia: i voti bassi dell’insegnante che detesta il tuo carattere polemico, la cattiveria delle altre allieve, l’invidia.
«Non ce la farai mai», è il mantra preferito nell’ambiente e allora devi stringere i pugni, sapere che la tua vita è quella e che solo il pubblico potrà giudicare se ti meriti il palcoscenico. Avevo 22 anni e andai a Marsiglia da Roland Petit che stava allestendo «La Dama di picche». All’audizione mi guardò con sufficienza e disse solo tre parole «Sei troppo giovane». Che rabbia! Io che non sono mai stata giovane. Che non mi sono mai guardata allo specchio con compiacimento, ma solo per vedere cosa non andava. Con metodo, appunto, per rimanere connessa con me stessa.
Comunque qualche anno dopo, avevo 26 anni, il grande coreografo venne a Roma a vedere proprio «La Dama di Picche e guardando le mie mani diventate adunche, l’atteggiamento del corpo e la mia espressività nel ballo disse: «Sei più vecchia di una vecchia».
Volere è potere? Servono talento, ostinazione, capacità relazionale, cultura. «I ballerini non sono acrobati», è quello che ho sempre detto anche da maestra, nella mia lunga esperienza come Direttore dell’Accademia di Danza: «troverete sempre un acrobata più bravo di voi e uno sportivo più potente e performante».
E poi la lotta con il corpo: si va in scena anche con una caviglia rotta (mi è successo), si diventa eterea e romantica anche se sei, come ero io, una ragazza alta, potente e forte.
In questo mestiere non si è mai «arrivati». Quando entrai al Bolshoi, l’empireo della danza, anche lì, sguardi e scuotimenti di testa: ma questa non può fare Giselle, personaggio troppo delicato e romantico. Serata della prima: la parola «panico» è inadeguata e riduttiva. Poi vai e conta solo quello che vuoi e «devi» dare al pubblico.
Altra parola che le ballerine ignorano è «vacanza». Non si stacca mai. E si continua a lavorare per piegare il proprio corpo. Già all’inizio le insegnanti, se si accorgono di una particolare abilità, ti forzano a fare una cosa diversa. Hai un salto prodigioso? Bene. Allora allenati alla resistenza sulle punte. Sempre oltre, fuori da ogni compiacimento. È un mestiere in cui c’è poco spazio per la vanità e per ragazzi e ragazze spesso bellissimi e idolatrati non è facile rinunciarvi. C’è qualcosa di monastico nel nostro allenamento e nella nostra vita.
Durante la pandemia, una cara amica russa che dirige una accademia a Genova ha creato un convitto». Delle decine di allieve che vi alloggiano, nessuna ha lasciato la villa durante il lockdown. Mesi di reclusione giudicati una eccellente occasione per prepararsi. Per leggere, per affinare la cultura musicale. Si sono sentite delle privilegiate.
La danza ti cambia la vita, ti condiziona, ti strega. Ma ti rende felice? Per due volte lo sono stata. Ho detto del Bolshoi. Un’altra volta alle Terme di Caracalla. Avevo preparato, con grande tenacia tecnica e meticolosa ricerca sul personaggio, «Il lago dei cigni» di Grigorovich, grande coreografo che aveva un solo credo: guai a far trasparire la fatica della preparazione, tutto doveva sembrare facile, naturale. Quello che si doveva vedere era solo il dolore della donna, Odette/cigno bianco, prigioniera di se stessa. Entro con un grand jeté e comincia a piovere. Posa di inizio e la certezza che, per non rovinare gli strumenti, l’orchestra avrebbe smesso di suonare. Invece la musica continua, il cielo si schiarisce e il secondo atto va sotto gli occhi di un pubblico attonito. Ecco, lì mi è sembrato di sfiorare il divino: quando il corpo, il cuore, l’anima, il gesto, la musica, tu e gli altri siete un tutt’uno. Cosa che forse capita solo nella completezza dell’amore.