Specchio, 11 luglio 2021
Conversazione con Vittorio Lingiardi
Vent’anni fa con Vittorio Lingiardi ci si sarebbe incontrati, magari a Milano. Oggi ci si vede su Skype, dopo un frenetico scambio di whatsapp per modificare l’orario dell’incontro. E mentre parliamo di quanto siamo connessi, troppo, e di quanto sarebbe importante trovare un metodo per riuscire a staccare, dai due computer trillano le notifiche, dai cellulari rimbalzano avvisi, e ci si trova gettati nel flusso della comunicazione – esattamente come qualche altro miliardo di persone nello stesso momento in tutto il mondo – come se ci si dovesse fare largo fra i flutti di continue micro-interruzioni prima di arrivare in porto.
La pandemia sembra aver abbattuto ogni barriera residua: «A me ora capita di svegliarmi – dice Lingiardi, psichiatra, psicoanalista, accademico e scrittore – e mentre bevo il caffè fare la prima riunione; poi, quasi senza soluzione di continuità, leggo i giornali, telefono a un’amica, curioso sui social, rispondo a un po’ di email, faccio una seduta via Skype, partecipo all’assemblea di condominio… Questo pc non è solo una scatola che contiene tante persone, come diceva Sherry Turkle (studiosa di scienze sociali al Massachussets Institute of Technology e all’Università di Harvard, ndr), è ormai proprio una protesi del nostro mondo interno: nell’archivio delle mail ci sono le nostre relazioni, nell’archivio delle foto ci sono i nostri ricordi, in qualche cartella speciale ci sono i nostri segreti». È molto per stare tutto in una scatola: «Noi siamo un sistema di piccoli sé che negoziano di continuo fra loro, e oggi il computer è parte di questo scambio». Nel traslocare parti di noi dallo spazio interno allo spazio ibrido interno-esterno del computer, dobbiamo stare molto attenti a non sottovalutare che la relazione non può fare a meno del corpo: «Costituisce una barriera per l’ansia, è ciò che a un certo momento, nella baraonda delle percezioni che ci arrivano dalla realtà virtuale, permette di ridefinire i nostri contorni, ci restituisce la misura del nostro essere finiti». Non sempre è facile tenere a bada quell’ansia, soprattutto perché un’"arma segreta” della vita online è la capacità di addomesticare le nostre paure più grandi (in questo senso “ci calma"): «Restare indietro, essere dimenticati e finire in qualche oscuro dimenticatoio digitale, perdere l’illusione di essere parte delle vite degli altri e poterle influenzare». Parliamo di persone che aprono il computer quando si svegliano al mattino e lo chiudono prima di andare a dormire: cioè di tutti. «Non è un caso – dice Lingiardi – che si parli di “connessione": attraverso lo schermo si è comunque in contatto con qualcuno e, attenzione, questa esperienza, reale o presunta, sembra curare due grandi ferite, cioè “nessuno mi vede” e “io sono solo"». Lingiardi non ha dubbi: «Il desiderio di essere “riconosciuti” e la sensazione di non essere soli formano un tutt’uno: anche nella giornata più buia di solitudine, la connessione online dà l’illusione, non del tutto illusoria, che esista una rete di relazioni a cui possiamo pensare di appartenere. E se anche proprio non sentiamo di esserne parte, possiamo comunque guardare le vite degli altri credendo così di sentirci meno soli».
Il percorso era tracciato, ma adesso con il distanziamento sociale e la necessità di continuare a vedersi, parlarsi, scambiarsi opinioni, l’accelerazione è evidente, tanto che incontrarsi per molti sta diventando complicato – quante volte sentiamo dire: “ma non si può fare a distanza?”. Come se, di nuovo, l’ansia di essere sempre presenti intaccasse la decisione di andare, o non andare, di preferire l’eternità connessa alla “perdita di tempo” legata al movimento. Vittorio Lingiardi racconta di aver ripreso a vedere i suoi pazienti in presenza da circa un mesetto: «Tutti ne sono contenti e anche io lo sono molto, ma questo non mi impedisce di essere grato a Skype e Meet perchè ci hanno permesso di continuare a fare le nostre sedute durante il lockdown. Ma sappiamo che l’emergenza può diventare quotidianità, e dunque, anche a poche settimane dalla ripresa di una vita in presenza, sento il paziente che mi dice che ha un’agenda infernale e che con le sedute online la poteva gestire meglio. Lo stesso accade con gli studenti e le studentesse: una mi ha appena scritto che è andata a trovare i genitori in un’altra regione e che per lei sarebbe più comodo fare l’esame online. Ecco, la comodità. O la pigrizia? O l’esperienza nuova che è già diventata abitudine? Ora il tema “politico” è: dobbiamo ripristinare tutto come era prima, perché in cima alla nostra scala c’è il valore dell’incontro in presenza, oppure accettare che la presenza non sempre è così necessaria?». C’è una risposta di cuore, e una di testa: «D’istinto, anche come reazione dopo tanta distanza e astinenza dalle relazioni toccanti, mi verrebbe da dire che dobbiamo conservare la tradizione dei convegni, delle sedute, delle riunioni come momenti d’incontro. Davvero possiamo rinunciare al ruolo del corpo? Ai miei colleghi più propensi a perpetuare l’online dico: “Ma siamo o non siamo un corpo docente?”. Razionalmente però, pur ravvisando un pericolo relazionale e simbolico nello svuotare di importanza l’incontro reale, penso che dobbiamo valutare di volta in volta le opportunità del virtuale, dello smart working e così via. Fenomeni che peraltro preesistevano e che la pandemia ha solo accelerato».
Il corpo, questo imprevisto. Sì, perché quando ci si incontra in presenza ci si può emozionare, si può piangere, ci si può toccare o decidere di baciarsi all’improvviso, si può sudare, e non ci sono sfondi o effetti che possano renderci migliori, più rispondenti all’immagine che vorremmo proiettare all’esterno. E se si andasse verso relazioni di serie A – quelle in presenza – e relazioni di serie B – quelle a distanza, per cui al fondo decidiamo che in alcuni casi non valga la pena “buttare tutto se stesso”, corpo compreso? «Orientarci a una vita dove il corpo è un’opzione – risponde Lingiardi – è un’ipotesi che mi preoccupa, ma che non possiamo ignorare o semplicemente demonizzare. Certo, presuppone una tale rivoluzione delle nostre abitudini e del nostro funzionamento fisico, neurale, psichico e relazionale che francamente non possiamo limitarci a considerarla una semplice opportunità. Detto questo, il modo in cui il corpo attraversa le relazioni è in continuo cambiamento. I nostri corpi di oggi non sono quelli che abbiamo “scoperto” negli anni ’70. Un fenomeno contemporaneo che mi colpisce molto, legato all’uso massiccio che facciamo di WhatsApp, è la “scomparsa” della voce: siamo passati dalla telefonata al messaggio scritto. Da un lato è quasi un ritorno a una dimensione epistolare, anzi micro-epistolare, dall’altro è la perdita di una componente fondamentale dell’esperienza, un altro pezzo di corpo che se ne va, la fine di un’alterità fisica. Tanto quanto le neuroscienze ci hanno obbligato a fare i conti con il concetto di “embodiment” (mente e cognizione incarnata), le scienze delle relazioni ci impongono di fare seriamente i conti con gli effetti collaterali di un altro neologismo: “decorporeizzazione"». Un problema che investe soprattutto gli adolescenti, che a differenza degli adulti, sulla virtualizzazione stanno strutturando le loro personalità: giocano tra loro sul pc, ballano su TikTok, fanno sexting su WhatsApp. Come insegnare la strutturazione della vita nella rete? «È la scommessa del secolo – dice ancora Lingiardi – ed è una scommessa creativa. Dobbiamo stare anche attenti a non cadere nella logica del culto del “ritorno al vinile…”. Il corpo non può essere un’operazione nostalgia, il corpo deve esistere nella sua vitalità, nella sua necessità, nella sua presenza disturbante. In fondo dopo un anno e mezzo di pandemia la gente, anche irragionevolmente, si accalca per le strada, sulle spiagge; c’è un’esultanza corporea che non è solo salutarsi, baciarsi, abbracciarsi, è sentire l’aria sulla pelle, essere immersi nel mondo, camminare, sentire il vento. Il corpo non è un dettaglio di cui possiamo fare a meno, o un’opzione che possiamo attivare o togliere. Il corpo è tutto quanto abbiamo perché è anche, un giorno, tutto quanto perdiamo. Non a caso – aggiunge – Freud diceva che la pelle è il principale organo psichico: il contatto mette in moto circuiti fisici e mentali che riguardano la memoria, gli affetti, il riconoscimento reciproco. Perché nel momento in cui tocchiamo, siamo anche toccati».
Il viaggio è appassionante, bisogna riconoscerlo: «Prima si diceva “siamo tutti nella stessa barca” – conclude Lingiardi – ormai è chiaro che siamo tutti su questa astronave, il pilota automatico è in parte un pericolo, soprattutto se non riusciamo a costruire una mappa di tutto il contesto, sia esterno sia interno – come sistema di parti del sé al cui interno compiere questo viaggio… I rischi sono molti. Possiamo però mappare, e condividere, e riflettere, e certe volte cercare soluzioni che non siano necessariamente mass-mediate». Per contrastare l’ansia da prestazione digitale, il senso di vuoto e la paura della solitudine, il comportamento del singolo resta fondamentale, e «tanti comportamenti individuali possono aiutare ad organizzare il viaggio collettivo».