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 2021  luglio 12 Lunedì calendario

Le omelie di von Galen contro il Führer

«La mia testa è a disposizione di vostra maestà, ma non la mia coscienza». L’immenso Clemens von Galen, in quell’estate 1941, citava ad esempio l’impavida risposta data nel 1763 da Ernst von Münchhausen a Federico II, l’imperatore che aveva osato chiedere al suo ministro di commettere un’ingiustizia. La citava e la faceva propria, per sfidare Adolf Hitler.
Sapeva bene, l’arcivescovo di Münster, che si stava giocando la pelle: «Nessuno di noi è sicuro, sia esso convinto di essere il più fedele, il più coscienzioso cittadino, sia esso convinto della propria completa innocenza, che un giorno non venga prelevato da casa, privato della propria libertà e rinchiuso nei sotterranei e nei campi di concentramento della polizia segreta. Non mi faccio illusioni: ciò può capitare anche oggi, o un giorno, anche a me. E poiché allora non potrò più parlare in pubblico, lo voglio fare oggi».
E parlò. Parlò con parole così chiare, severe, implacabili da esplodere come bombe in una Germania ammutolita dalla feroce repressione nazista. Tirandosi addosso l’odio dei fanatici, tipo il capo delle organizzazioni giovanili delle SS: «Io lo chiamo il porco C.A., cioè Clemens August. Questo traditore è traditore del Paese, questo porco è libero e si prende la libertà di parlare contro il Führer. Va impiccato». «Impiccato!», insistette Martin Bormann. Quel vescovo amatissimo, però, era un simbolo ormai troppo grande perfino per il regime. «Rischiamo di farne un martire», obiettò Joseph Goebbels. Adolf Hitler fu costretto a ingoiare. Ci avrebbe pensato a guerra vinta: «E pagherà fino all’ultimo centesimo».
Nato nel 1878 nel castello di famiglia di Dinklage, vicino a Brema, figlio del conte Ferdinand von Galen e della contessa imperiale Elisabeth, cresciuto dai gesuiti nel collegio austriaco «Stella matutina» di Feldkirch scelto dalla grande nobiltà mitteleuropea, prete dal 1904, quello salutato dal «New York Times» come «il Leone di Münster», visse col despota tedesco una sorta di vita parallela. Come ricorda nel bel libro Un vescovo contro Hitler (San Paolo Edizioni, 2006) la scrittrice e vaticanista (e amica di Papa Francesco) Stefania Falasca, diventò vescovo 9 mesi dopo che Hitler era salito al potere e morì circa 9 mesi dopo la sua morte. Senza avergli mai dato tregua.
Cominciò, dopo 23 anni in una parrocchia di Berlino, il giorno stesso della consacrazione episcopale quando, a dispetto della forzata dichiarazione di fedeltà allo Stato pretesa dal concordato tra il Vaticano e il Terzo Reich (firmato tre mesi prima da Franz von Papen e dal futuro Pio XII, Eugenio Pacelli) scelse un motto di sfida: «Nec laudibus, nec timore». Né con le lodi, né con le minacce: mai avrebbe tradito la sua missione.
Pochi mesi e i nazisti capiranno. Nella sua prima lettera pastorale dopo la diffusione a tappeto de Il Mito del XX secolo di Alfred Rosenberg, principale teorico del nazismo razzista, von Galen fa diffondere nelle chiese, il 1° aprile 1934, Pasqua, la sua prima lettera pastorale: «Una nuova nefasta dottrina totalitaria che pone la razza al di sopra della moralità, pone il sangue al di sopra della legge (…) ripudia la rivelazione, mira a distruggere le fondamenta del cristianesimo…». È solo il primo passo, seguito da più contestazioni fino a una sorta di «chiamata alle armi» nel maggio 1941, quando non ne può più di indugi e timidezze e scrive al vescovo Wilhelm Berning che, davanti alla «violenza pressoché insopportabile inferta alla libertà della Chiesa» dal Reich, questa non può più tacere. Lui stesso finora ha tacitato la sua coscienza dicendo a sé stesso che «se il cardinale Bertram e tanti vescovi, che mi superano per esperienza e per virtù, di fronte a tutto ciò restano tranquilli, e si contentano di proteste cartacee e inefficaci, completamente ignorate dall’opinione pubblica» sarebbe arrogante, disdicevole o «pazzesco» se fosse lui a ergersi su tutti: «Ma la mia coscienza non sopporta più d’essere messa in pace con questi argomenti ex auctoritate». Ricorda come, in nome dei valori cristiani, «san Thomas Becket, san Stanislao di Cracovia e altri santi vescovi sono morti martiri». Cita «la parola di Isaia a proposito dei canes muti, non valentes latrare», i cani muti, incapaci di abbaiare…
Il 3 agosto, nella terza predica, denunciò i rastrellamenti casa per casa dei più fragili e la loro decimazione teorizzata per forgiare la razza
Il 13 luglio, forse deluso dalle reazioni a quella lettera con cui aveva cercato di stanare quegli uomini così probi, sgancia infine la prima delle tre formidabili omelie domenicali che dimostreranno come fosse possibile scuotere perfino la Germania nazistizzata.
Münster è stata appena bombardata, il Paese è sempre più inquieto e von Galen denuncia «l’assalto ai monasteri che già da tempo infuria» e il rischio «che un monastero dopo l’altro venga confiscato dalla Gestapo e i suoi inquilini, nostri fratelli e sorelle, figli delle nostre famiglie, fedeli connazionali tedeschi, vengano gettati sul lastrico come schiavi senza diritti ed espulsi come insetti nocivi». Tuona: «Si avvera la predizione di Cristo ai suoi discepoli: “Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi”». Profetizza: «Se il dominio della regina giustizia non sarà ripristinato, allora il nostro popolo tedesco e la nostra patria, malgrado l’eroismo dei nostri soldati e le loro gloriose vittorie, periranno per putrefazione interna e per corruzione».
Ma è la terza omelia, il 3 agosto, a cambiare la storia. I rastrellamenti casa per casa dei più fragili e la loro decimazione teorizzata per forgiare la razza già nel Mein Kampf («Qui lo Stato deve fornire un enorme lavoro educativo, che un giorno apparirà quale una opera grandiosa...») stanno seminando tra i tedeschi il panico. Dove spariscono i padri, le madri, i figli malati? Perché ai parenti sono restituite solo ceneri? Cosa sono le teorie sulle «vite indegne d’essere vissute»? È furente, l’eroe di Münster a sentir dire che «sono come una vecchia macchina che non funziona più, come un vecchio cavallo diventato inguaribilmente zoppo. Sono come una mucca, che non dà più latte. Cosa si fa con una tale macchina? Viene demolita. Cosa si fa con un cavallo zoppo, con talaltra bestia improduttiva? (…) No, qui non si tratta di macchine, non si tratta di cavalli e di vacche... Si tratta di esseri umani, nostri consimili, nostri fratelli e nostre sorelle. Poveri esseri malati e, se si vuole, anche improduttivi! Ma non meritano per questo di essere uccisi. Hai tu, ho io il diritto alla vita soltanto finché noi siamo produttivi, finché siamo ritenuti produttivi da altri? Se si ammette il principio, ora applicato, che l’uomo “improduttivo” possa essere ucciso, allora guai a tutti noi, quando saremo vecchi e decrepiti! Guai agli invalidi, che nel processo produttivo hanno impegnato le loro forze, le loro ossa sane le hanno sacrificate e perdute!»
Di più: «Se si possono eliminare con la violenza esseri improduttivi, allora guai ai nostri bravi soldati, che tornano in patria gravemente mutilati, invalidi!».
Non c’è tedesco che, strattonato così, non venga colto da un dubbio. Un groppo in gola. E le parole dilagano in tutte le parrocchie, tutte le case, tutti gli ambienti arrivando ciclostilate perfino tra i soldati al fronte. E urlano al punto di costringere Adolf Hitler a fermarsi.
Nessuno aveva ufficialmente avviato l’Aktion T4, nessuno dichiarerà ufficialmente la sua fine. E certo, l’ansia dei nazisti di uccidere in nome della «razza eletta», non si ferma. Andrà avanti clandestina nelle cliniche, negli ospedali, nei Lager... Celata come le nefandezze più orribili. Ma milioni di persone, in quei giorni, capiranno finalmente che quel vescovo ha salvato un pezzo anche del loro onore di tedeschi.