la Repubblica, 12 luglio 2021
La maledizione di Southgate
LONDRA – La maledizione continua. Nel 1996, Southgate s’era macchiato la carriera dagli 11 metri sbagliando agli Europei in casa. È successo, tragicamente, di nuovo, stavolta alla guida della nazionale. Eppure sarebbe stata la fine del mondo. L’Inghilterra che dopo 55 anni poteva vincere un trofeo ancora a Wembley, ma all’Italiana: col catenaccio. Che poteva trionfare addirittura grazie a un portiere finalmente straordinario, Pickford, sfatando una tradizione nefasta. E invece, no, l’incantesimo non si è spezzato, dopo vergognose scene fuori dallo stadio, con decine di tifosi inglesi ubriachi che sfondano i cordoni ed entrano in uno stadio che doveva essere pieno a due terzi e che invece era quasi esaurito.
I cocci, tutti, si raccoglieranno oggi. In ogni caso, Southgate ha fatto un mezzo capolavoro. Patriota buono, collante di una nazione spaccata, un gentleman che sin da bambino era l’unico che portava la cravatta a scuola. Il comandante tranquillo ha trasformato una nazione di clan e primedonne in un gruppo di straordinarie armonia e compattezza. Si dice che in allenamento il capitano del Liverpool Jordan Henderson una volta abbia allacciato addirittura le scarpe ai ragazzini Saka e Mount. Southgate ha creato uno spirito operaio saldato dalla fede nei propri mezzi: da amante di “Sapiens” del filosofo israeliano Harari, “un solo prete può fare meglio di mille soldati”. Ieri sera, poi, per 60 minuti ha incartato l’Italia. E dopo due i Tre Leoni hanno segnato proprio con la sorpresa tattica del 3-5-2, con Shaw dopo aver fatto partire l’azione dalla sua area. Sembrava la favola perfetta del riscatto suo e di un Paese intero: anni fa, a Shaw, la gamba si era spezzata in tre.
Poi però sono tornati i fantasmi. E non sono serviti a nulla gli allenamenti specifici sui rigori degli inglesi. La cautela, anzi il catenaccio di Southgate, è stata troppa. Il “jeu de prudence” è diventata paura di vincere, nonostante un potenziale enorme in attacco dell’Inghilterra. Sipario di lacrime: bissare Sir Geoff Hurst e la vittoria del 1966 nello stesso stadio è stata solo una magnifica illusione, infrantasi sul volto addolorato del principino George, dopo una esilarante esultanza sull’1-0 tra papà William e mamma Kate. Più in là, in tribuna, Boris Johnson, uno cui del calcio non è mai importato molto fino a quando ha deciso di ammazzare la Superlega, anche se molti della stessa nazionale, in primis Rashford sulla povertà, lo hanno sfidato in pubblico. Proprio dopo l’errore dal dischetto dell’attaccante dello United, l’Inghilterra è risprofondata nel suo abisso esistenziale.
Ogni benedizione mancata diventa una maledizione, scriveva Coelho. Del resto, al di là dell’imperiale God Save The Queen, le canzoni degli inglesi – da “Football’s Coming Home” a Sweet Caroline di Neil Diamond – sono piene di speranza ma anche di eterna malinconia: “Trent’anni di dolore non mi hanno mai fatto smettere di sognare”. È il nuovo “non succede, ma se succede”. Il calcio non è tornato a casa. Nemmeno stavolta.