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 2021  luglio 12 Lunedì calendario

Santo Stefano del cemento e dei turisti

C’è un’isola bellissima e aspra a largo del Lazio meridionale, un’isola lontana dai fasti mondani di Ponza, in cui i volumi di traffico marittimo sono contenuti, perché si è capito che dove si sta bene in cento si starà certamente male in mille. Un’isola che è oggi presa d’assalto, ma che regge ancora perché scomoda e lontana. L’isola è piccola, ma, anche in estate, è possibile passeggiare nel silenzio o scendere a mare per dirupi scoscesi lungo i quali non si incontra nessun altro. Al tempo dell’Impero Romano, Ventotene era probabilmente un’unica, grande villa augustea, con il proprio porto, cisterne, peschiere e addirittura un piccolo stadio. Restò poi abbandonata a lungo e durante il fascismo divenne luogo di confino e forse per questo l’isola è diventata un buen ritiro di intellettuali nostrani, magari quelli più ruspanti, visto che non è proprio un posto comodo come la quasi antistante Sabaudia. Qui strade propriamente dette sono quasi assenti, ma il traffico veicolare sta assurdamente compromettendo l’ultimo privilegio di Ventotene.
Appena più a est c’è Santo Stefano, un isolotto su cui è stato costruito un carcere per ergastolani che non aveva molto da invidiare ad Alcatraz (nel 1860 gli 800 ergastolani elessero un governo reggente provvisorio che, fra l’altro, comminava la pena di morte ai ladri …) con una struttura a ferro di cavallo che conferisce una sensazione da colonia extra mondo di Star Wars. Un altro paradiso italico, come molti altri minacciato dalla solita arcaica idea di sviluppo: portare più persone in ambienti fragili con il risultato di svilirli, scontentare i turisti e danneggiare il capitale naturale. Un grande finanziamento di 70 milioni di euro trasformerebbe il carcere in un polo di attrazione turistica internazionale, rischiando di snaturare anche questo lembo remoto d’Italia quasi intatto. Le operazioni iniziano dalla “rifunzionalizzazione” dell’approdo della Marinella (preparandolo così a diventare un porto), per evidentemente avere come fine la trasformazione del carcere borbonico: dove i più saggi vedono godimento, bellezza e ambiente, i più avidi vedono sfruttamento, cemento e “sviluppo”, non avendo alcuna nozione né di quest’ultimo né del resto.
Si comincia con un molo inutile e disfunzionale alle effettive necessità per le manovre di sbarco, ma allo stesso tempo non commisurato e fragile per quello che riguarda la capacità di resistere alle sollecitazioni delle mareggiate. Un approdo per potenziali speculazioni future che non tiene conto del fatto che a Santo Stefano sono state imposte da anni sia una area marina protetta che una riserva naturale dello stato, vincoli che permettono pochissimi interventi mirati e, nella zona A, rendono interdetta la navigazione. Barche e motoscafi, però, incrociano incuranti delle aree protette perché non c’è sorveglianza. E non è solo questione di mancanza di uomini e mezzi, ma del fatto che queste aree non ricadono in quelle di competenza del Parco Nazionale del Circeo, come sarebbe corretto, ma del Comune che, a essere malevoli, si potrebbe sospettare interessato più agli alberghi che alla protezione del mare. Siamo alle solite, un patrimonio collettivo pronto alla svendita per gli interessi di pochi.
Le associazioni e i cittadini hanno protestato e lo Stato ha accolto e amplificato tutte le osservazioni presentate dal Comitato Santo Stefano Sostenibile, dal Presidente del WWF Italia Donatella Bianchi e da tanti altri, traducendole in specifiche richieste, fra cui quella di considerare alternative meno invasive per l’approdo della Marinella, come i cittadini stanno chiedendo invano da mesi. Una valutazione negativa che non dovrebbe essere interpretata come una sconfitta da parte della Comissaria Staordinaria che ha voluto l’opera, ma come una opportunità per fare meglio e, magari, per rendere l’Isola di Santo Stefano un modello diverso per l’Europa e per il Mediterraneo.
Le prescrizioni imposte sono significative: considerare meglio impatti e effetti sull’ecosistema amarino, approfondire il quadro generale di fattibilità di tutti gli interventi previsti. In particolare si chiede di non impattare sulla prateria di Posidonia, pianta delicata che svolge un ruolo ecologico essenziale per la qualità delle acque marine. Si chiede di non usare cassoni di cemento, di ridurre la massicciata di protezione del molo e di costruirlo parallelamente alla costa e non ortogonalmente. Si chiedono, in ultima analisi, misure importanti di mitigazione dell’opera e un programma di monitoraggio ambientale sia ante che post operam. La domanda che sorge spontanea è: ma non dovrebbe essere normale routine prevedere queste azioni anche senza le proteste dei cittadini? Ci si rende conto di cosa significa proteggere le nostre isole minori? Ed è possibile che lo “sviluppo” passi sempre attraverso il cemento? Non sarebbe sufficiente intervenire con un restauro conservativo che ne garantirebbe l’accesso e la visita mantenendone intatto il valore paesaggistico e di testimonianza storica?
Ma il punto è che in Italia non esiste un debàt publique, come in Francia, sulle grandi opere e dunque nessuno pensa a un coinvolgimento della comunità locale nell’immaginare, per il molo, soluzioni che facilitino l’accesso all’isola, perché tutti hanno il diritto di visitare questo luogo, ma allo stesso tempo il dovere di rispettarlo e tutelarlo. È un problema generale di impatti sul territorio e va dall’inceneritore provinciale al ponte sullo stretto di Messina, dal digestore dei rifiuti alle pale eoliche, dalle infrastrutture alle case. È la modalità furbesca di imporre opere e poi stigmatizzare come “quelli del no” i cittadini che si organizzano per fermare gli scempi. Il problema del nostro paese è che di “no” se ne sono detti semmai pochi, non troppi (anche se spesso alcuni erano sbagliati). Ma si fa sempre in tempo a rimediare. —