Il Sole 24 Ore, 12 luglio 2021
Conviene all’azienda avere un Ceo superstar?
Da Occidente a Oriente c’è un destino differente per due degli uomini più ricchi al mondo. Elon Musk, che ha compiuto 50 anni e che nel 2020 è balzato al secondo posto della classifica Forbes con un patrimonio netto di 170 miliardi di dollari, ha scelto di vivere in una casa di 37 metri quadrati. Siamo a poca distanza dall’headquarter del suo SpaceX in località Boca Chica, paesino costiero del Texas da dove prendono forma le sue navicelle spaziali. Musk ha venduto sette delle sue ville a Los Angeles per traslocare in questo prefabbricato per concentrarsi sulla missione su Marte provando a vivere al di sotto delle proprie possibilità, ma alcuni analisti ci leggono anche una risposta indiretta al dilagante smartworking, che in America sta dividendo colletti bianchi e classe dirigente. In Cina, invece, si è consumata la fine della carriera per Jack Ma, fondatore del colosso Alibaba, patrimonio di oltre 46 miliardi di dollari congelato dopo le esternazioni pubbliche: Ma ha attaccato il sistema di regole cinesi, attirando gli strali del presidente Xi Jinping. Tra Musk e Ma c’è una generazione di leader che provano a metterci la faccia, con successi però alterni. «Quando parliamo di “Ceo branding” ci riferiamo ad uno strumento attraverso il quale viene gestito a livello di strategia di comunicazione il ruolo del Ceo per proiettare l’identità dell’azienda anche all’esterno. Il Ceo di ultima generazione diventa così un pioniere che non agisce da un mondo altro rispetto ai propri stakeholders e poi comunica per raggiungerli, ma un soggetto immerso nella complessità e spinto da motivazioni etiche, una guida che interpreta la contemporaneità», afferma Stefania Micaela Vitulli, docente di Corporate Communication all’Università Cattolica e co-autrice di “Ceo Branding”, volume scritto insieme a Gabriele Ghini e Alessandro Detto per Egea.
Ceo changemaker
«Vuoi vendere acqua zuccherata per il resto della tua vita o vuoi venire con me a cambiare il mondo»?. Correva l’anno 1982 e con questa frase pronunciata a Cupertino Steve Jobs provava a sedurre (con successo) John Sculley, colui che aveva portato PepsiCo nell’Olimpo dei soft drink sfidando il colosso Coca-Cola. Pochi mesi dopo Sculley accettò la guida di quello che sarebbe diventato di lì a poco il colosso hi-tech più grande al mondo. «Gli executive possono contribuire a creare valore per l’azienda e c’è un grande spazio di crescita intelligente e professionale. Oggi si è in piena evoluzione e pochi Ceo ne hanno compreso la potenza. Ma attenzione: i Ceo superstar stanno passando di moda e si va verso uno stile più sobrio e basato sui fatti con una gestione chiara, reale e coerente. Si tratta di un fenomeno da monitorare con attenzione e soprattutto da gestire: se opportunamente comunicato il Ceo è un moltiplicatore della reputazione aziendale. Questo non vuol dire essere presenti su tutti i media tanto per esserci, ma trasmettere i messaggi nelle sedi e nelle forme opportune», precisa Vitulli. È un tema di governance, di processi, di analisi che lascia poco spazio all’improvvisazione. Ecco perché tutto ciò comporta una costruzione della futura classe dirigente rispetto ad un Ceo changemaker che ha vissuto varie evoluzioni. «Si è partiti da una fase di seduzione nella prima metà del Novecento con le figure muscolari. Poi sono arrivati i primi Ceo del comparto hi-tech con una comunicazione consapevole. Si è passati poi ad una figura più dimessa negli anni della crisi 2008-2010: in fondo meno ci si faceva vedere in giro, meglio era perché l’esposizione costituiva un potenziale rischio. Oggi il Ceo vive in un ambiente social, attento a quei temi etici che gli permettono di incarnare una figura carismatica e valoriale», ricorda Vitulli.
Ceo a rischio bolla
Però nel tempo fragile dei personalismi il rischio è l’autoreferenzialità, con un leader ipertrofico che cannibalizza il racconto dell’azienda. Attenzione perciò a strabordare in una logica da superstar, anche perché il Ceo senza l’azienda non può esistere. «Esserci per esserci non ha senso perché comporta banalmente che si possa essere attaccati. Bisogna uscire dall’effetto polarizzazione, che è una trappola e l’esposizione va gestita per evitare che si trasformi in una bolla. Meglio comunicare meno, se non si hanno cose da dire», dice Vitulli. Così la personalità diventa funzionale all’azienda. «Metterci la faccia è essenziale perché risulta credibile, anche perché non considerare la leadership con un nome e cognome sarebbe un errore. Ma nel momento in cui lo si fa bisogna avere una strategia. Con la pandemia emerge un nuovo approccio nella gestione delle risorse, definita leadership bidimensionale: empatia e supporto, ma anche assertività e autorevolezza. I Ceo devono trasformarsi da seduttori a pionieri per guidare società e cittadini in un mondo post-pandemico».
Dal Ceo alla reputazione: oggi meno del 6% delle persone sa chi sia la guida di un’azienda, ma tra coloro che lo sanno la reputazione aziendale cresce del +10.5%. Lo ha sottolineato Luca De Meo, Ad di Renault e tra i Ceo intervistati: sui rettilinei siamo tutti bravi a guidare, basta tenere saldo il volante. La differenza tra piloti si vede nella capacità di gestire la macchina in curva.