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 2021  luglio 11 Domenica calendario

Moravia non era un padre


Mentre Enzo Siciliano moriva io ero davanti a lui insieme ad Arnaldo Colasanti. Ci trovavamo nel reparto di terapia intensiva della clinica Villa Mafalda, a Roma. Enzo era a petto nudo, in completa balia della macchina per la respirazione automatica. La maschera dell’ossigeno era applicata a uno strumento che girava la sua testa da una parte all’altra con l’ottuso vigore dei congegni meccanici. Il rumore del respiro era fasullo, un sibilo pneumatico. In tutto e per tutto era la macchina che respirava Enzo, non il contrario. E Arnaldo, lì, in quel momento, ha detto una cosa. «A Sabaudia», ha detto, «Pasolini e Moravia si sono comprati una bifamiliare, ma una famiglia non l’hanno mai avuta». Cosa c’entrava quell’osservazione con Enzo che moriva? Enzo era stato molto amico di Pasolini e di Moravia, d’accordo, ma una famiglia lui ce l’aveva, e a parte Bernardo che stava rientrando precipitosamente dagli Stati Uniti, la sua famiglia – cioè Flaminia, sua moglie, e Francesco, l’altro figlio – era lì, nell’anticamera, a ricevere gli amici che accorrevano al suo capezzale. Cosa c’entrava la bifamiliare di Moravia e Pasolini?
Ora, come buona regola io non sottovaluto mai le cose che non c’entrano niente. Al contrario, penso che siano le più importanti. Penso che proprio l’assenza di un nesso con il contesto le segnali come urgenti e irrinunciabili – siano esse gesti, segni grafici, frasi scritte o pensieri espressi. Invece di perdermi nel labirintico tragitto che quelle cose hanno percorso nella mente di chi le ha fatte, tendo a concentrarmi sul loro fiorire davanti a me e sull’impatto che questa fioritura produce. Perciò non mi sono mai chiesto – né ho mai chiesto a lui – perché Arnaldo in quel momento abbia detto quella cosa; e tuttavia, forse proprio per questo, non ho mai smesso di pensarci. Si può ben dire che da allora non sia passato giorno – era il 9 giugno del 2006 – senza che io abbia pensato a quella frase: «A Sabaudia, Pasolini e Moravia si sono comprati una bifamiliare, ma una famiglia non l’hanno mai avuta».
Sappiamo tutti come sono morti Moravia e Pasolini: uno da solo, nudo, nel bagno di casa, a Roma, e l’altro massacrato all’Idroscalo di Ostia. Non c’era nessuno lì davanti, mentre morivano, a guardarli e a dire cose che non c’entravano niente. Per quanto diverse si tratta di due morti uguali – due morti di chi non aveva famiglia. Ma questa è la morte, e si muore una volta sola, e come si muore può anche essere frutto del caso. Quel che conta davvero è la vita – ed è proprio pensando alle loro vite che la frase di Arnaldo si carica di tutta la propria ossidrica, urticante tenerezza.
Io Pasolini non l’ho mai incontrato, né conosciuto, né frequentato. Non ho proprio fatto in tempo, anche se il destino, dieci anni dopo la sua morte, mi ha portato a vivere tra le sue cose, a dormire nel suo letto e a scrivere un intero romanzo con la sua Lettera 22. Quando l’hanno ammazzato avevo l’età di Gennariello, il ragazzino immaginario al quale ha scritto una lettera a settimana tramite il «Corriere della Sera» dal 6 marzo al 5 giugno del suo ultimo anno di vita, il 1975. Ma anche immedesimandomi in questo ragazzino, anche considerando ciò che non era, e cioè che quelle lettere Pasolini le avesse scritte a me, nemmeno per un istante mi è passato per la testa che potesse esserci tra noi, sublimato, traslato, aberrato, un rapporto padre-figlio. È impossibile sentirsi figli di Pasolini, perché lui non voleva essere padre di nessuno, perché figli non ne voleva. E senza padri né figli non può esserci famiglia.
Moravia invece l’ho conosciuto, l’ho incontrato e l’ho frequentato. Poco, in realtà, molto meno di quanto avrei desiderato e potuto, perché purtroppo mi faceva soggezione. Avrei potuto frequentarlo molto di più perché per gli ultimi due anni della sua vita ho fatto il segretario di redazione di «Nuovi Argomenti» (mi aveva chiamato lì proprio Enzo Siciliano), la rivista che lui aveva fondato insieme ad Alberto Carocci nel 1953 e che ha continuato a dirigere fino alla morte. Ci sentivamo spesso, per telefono, non senza difficoltà data la sua nota sordità, e io sapevo che lui al pomeriggio non scriveva, che «si annoiava», e che dunque avrei ben potuto passare a trovarlo e trascorrere con lui tutto il tempo che volevo – ma, per l’appunto, provavo per lui soggezione, e i nostri rapporti ne hanno sofferto. Tuttavia, mi sono chiesto più volte se avrei mai potuto ripetere di lui, come il bambino di Miseria e nobiltà: «Moravia mi è padre a me». Mi sarebbe piaciuto, avrei voluto assomigliargli, e la soggezione, in fondo, è un sentimento plausibile nei confronti di un padre che si ammira. Ma a parte che, anagraficamente, più che di padre si sarebbe dovuto parlare di nonno (lui era del 1907, e mio nonno del 1904), nemmeno utilizzando la più elastica delle definizioni di padre Moravia poteva essere definito tale, di me come di chiunque. Rispetto a Pasolini, il suo rifiuto era meno ideologico e però anche meno sofferto, più naturale: come uno che non canta semplicemente perché è stonato. Ed è da quel poco che ho conosciuto direttamente di lui, nel poco che ho approfittato delle occasioni che ho avuto di frequentarlo, che ho tratto questa convinzione: Moravia non sapeva nemmeno cosa fosse, essere padre. Aveva, s’è detto, l’età di mio nonno, e mi trattava come fossimo coetanei. Una volta mi raccontò per tutta una cena quanto fosse profondo e pieno di tormenti adolescenziali il suo amore per sua moglie. Un’altra volta, avendomelo sentito menzionare, mi chiese di spiegargli come funzionava esattamente il Metodo di Cross con il quale, in epoca pre-computer, si calcolava a mano la resistenza degli incastri nelle strutture in cemento armato (e mentre ero lì che glielo spiegavo, me ne sbalordivo e scandalizzavo insieme, perché non era possibile che una volta tanto che avevo vinto la soggezione e mi ero trovato a passare del tempo con lui invece di parlare di letteratura, di «Nuovi Argomenti», del romanzo che stavo scrivendo, gli stessi spiegando una delle cose più noiose della scienza delle costruzioni). Per la cronaca, era interessato a quel metodo perché era basato sul concetto di reiterazione, cioè di ripetizione, che era poi alla base anche della sua poetica, tanto che il romanzo che stava per pubblicare (l’ultimo pubblicato in vita), che alla fine ha avuto per titolo In viaggio a Roma, doveva originariamente chiamarsi proprio Le ripetizioni.
Ma erano tutte occasioni in cui non eravamo io e lui soli, c’erano con noi altre persone. Ce n’è stata una, invece, in cui siamo stati soli, io e lui, e lì ho avuto la prova definitiva che Moravia poteva essere qualsiasi cosa tranne un padre. C’era una riunione di redazione di «Nuovi Argomenti», l’avevo convocata io stesso, ed erano già tutti arrivati, Enzo Siciliano, Raffaele La Capria, Franco Cordelli, Dario Bellezza, Antonio Debenedetti, Dacia Maraini, Francesca Sanvitale, Alain Elkann, Edoardo Albinati, Giorgio Montefoschi, Leopoldo Fabiani, Ruggero Guarini, ma Moravia non c’era. E non c’era, mi resi conto d’improvviso, per la semplice ragione che mi ero dimenticato di avvertirlo. Vergognandomi, scappai in redazione con una scusa (un sottoscala nel seminterrato della palazzina Mondadori) e gli telefonai, dicendogli la verità e implorandolo di scusarmi. Lui disse solo «Va bene, arrivo», e nel giro di un quarto d’ora, immagino dopo aver guidato come un pazzo la sua Lancia Delta beige da casa a via Sicilia, arrivò alla riunione, appoggiato al suo bel bastone. Si sedette al suo posto di direttore, si scusò per il ritardo, e non disse nulla della mia mancanza. Cioè, mi coprì – lanciandomi, nel farlo, un entusiasmante sguardo complice e sbarazzino. A riunione finita non mi prese da una parte per dirmi qualcosa, non tornò sopra alla faccenda nemmeno per farsi ringraziare. Andata, dimenticata. In effetti, a vederla come l’ha vista lui, la faccenda non era grave, si poteva tranquillamente lasciarla cadere, ma quale padre avrebbe mai fatto questo? Non il mio, il quale avrebbe sentito il dovere di rimproverarmi l’act manqué più balordo che potessi commettere; e nemmeno Enzo Siciliano, che mi voleva bene come un padre e che come mio padre, lui sì, si sarebbe soffermato sulla mia negligenza, magari a riunione finita, in privato, foss’anche solo per sincerarsi che non ci fosse qualcosa che mi turbava. Invece nessuno mi ha rimproverato nulla perché il mio compagno di banco, il mio amico del mare, il mio coetaneo, il fidanzato di mia sorella, il fratello della mia fidanzata, il mio collega galoppino, il giovane assistente del mio professore, mio cugino, mio zio, mi ha coperto. Per non farmi fare brutta figura davanti a tutti gli scrittori della redazione, davanti a Enzo Siciliano.
Enzo Siciliano al quale penso ogni giorno da quindici anni, da quando è morto sotto i miei occhi, perché è l’unica persona cara che ho visto morire, oltre a mia madre, e perché Arnaldo Colasanti, mentre lui moriva, ha pronunciato quella frase insensata, madornale, tenerissima e indimenticabile: «A Sabaudia, Pasolini e Moravia si sono comprati una bifamiliare, ma una famiglia non l’hanno mai avuta».