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 2021  luglio 11 Domenica calendario

Intervista a Valeria Bruni Tedeschi

CANNES – Gli incontri con Valeria Bruni Tedeschi – stavolta alla Terrasse del Palais che affaccia sugli alberghi – sono sempre un po’ a sorpresa. In continuo divenire, come la sua quotidianità zeppa di impegni, tra famiglia, il set da regista a Parigi e i due film che porta al Festival di Cannes, Cette musique ne joue pour personne e soprattutto La fracture.
Nel film di Catherine Corsini, una delle quattro registe in corsa per la Palma d’oro, è una disegnatrice che rifiuta di essere lasciata dalla compagna, Marina Foïs. Dopo una caduta finisce al pronto soccorso, nella notte degli incidenti tra gilet gialli e polizia agli Champs-Elysées.
L’ospedale si trasforma in un crocevia di manifestanti feriti, anziani in fin di vita, infermieri allo stremo. Rabbia, scontri ideologici, momenti divertenti in una radiografia della Francia di oggi, paese fratturato ancora capace di tenerezza: «Sono contenta di essere qui. Quando tutto era chiuso pensavo: alla riapertura dovremo ricordarci di quando non potevamo fare le cose. Oggi dobbiamo essere coscienti della fortuna di essere qui a mostrare, guardare, parlare dei film.
Ciò che un tempo ci sembrava naturale dovremmo sentirlo straordinario, ora e per sempre.
Spero che almeno il Covid regali questa saggezza».
L’impressione di Cannes 2021?
«Sembra un festival totalmente diverso, con molta meno gente. Però i film sono proiettati, le sale sono piene, questa è la cosa importante.
Che il tono sia più basso è anche più rispettoso, vista la situazione.
Troverei strano un festival esageratamente glamour».
È venuta al festival molte volte.
«Sì, con Patrice Chéreau, Mimmo Calopresti e Nanni Moretti per La seconda volta, peccato che stavolta non riuscirò a vedere il suo Tre piani.
E poi sono tornata con Marco Bellocchio, con i miei film da regista, penso a Il castello in Italia con Louis Garrel e Filippo Timi. Il ricordo più forte è quello del 1987 con Chéreau e Vincent Perez per Hotel de France.
Ero ancora a scuola, non sapevo cosa stavo vivendo e non avevo neanche il vestito, ne affittai uno qui».
"La fracture” fotografa una Francia spezzata.
«È un film sugli incontri, anche furtivi, apparentemente insignificanti ma che per me sono l’essenza della vita. Persone diverse che si ritrovano in un posto chiuso in una notte, e quando usciranno si ritroveranno cambiate perché l’incontro con l’altro ci cambia».
Questo è uno dei suoi personaggi
senza filtri.
«Sì, una donna piena di energia disperata, che cerca in tutti i modi di recuperare la persona che ama. Un personaggio liberatorio come quello di La pazza gioia. Nella vita sono piena di filtri, il set mi aiuta a prendermi una vacanza dal super io, mi permette di esprimermi come vorrei nella vita ma non posso».
Recita anche la vera infermiera Aïssatou Diallo Sagna.
«È una rivelazione, le auguro di lavorare ancora come attrice perché è umana, profonda, bella».
La sua disegnatrice borghese si scontra e poi trova un contatto tenero con un manifestante. Che pensa dei gilet gialli?
«Erano persone che avevano un grido da lanciare, qualcosa da chiedere.
Questa cosa non è stata ascoltata. Lo dice il camionista del film: “Speravo che il presidente venisse e semplicemente ci ascoltasse”. Non è stato così. Poi hanno fatto tante esagerazioni, si sono mischiati con l’estrema destra e ci sono stati errori.
Però, in fondo, c’era qualcosa che avevano bisogno di dire. Questa frattura in Francia esiste».
Come va il set di “Les Amandiers”, il film sui suoi anni alla scuola di recitazione di Chéreau?
«Bene. Sono felice dei miei giovani attori, innamorata di loro. E poi ci sono gli adulti, Louis Garrel e Micha Lescot, nel film sono Patrice Chéreau e Pierre Romans. Da anni un amico mi ripeteva che dovevo fare questo film, un giorno la cosa mi è sembrata evidente. È un’esperienza sconvolgente, questo viaggio nel mio passato, nella mia giovinezza».
Porta con sé la famiglia artistica e umana, stavolta Louis Garrel. Non chiude mai le porte.
«Non ragiono così. Non ha senso per me una vita con le porte chiuse. Per me ha senso lavorare con Louis Garrel, come parlare di Mimmo Calopresti, da cui ho imparato molto e con cui ho girato di recente.
Quando vengo a Cannes penso a Marco Bellocchio e a La balia. Sono legata alle persone con cui ho lavorato e vissuto. Anche se alcuni non li vedo spesso. Le cose che si chiudono mi danno un senso di morte. Ma neanche la fine della vita è una porta chiusa. Mi pare che per me Chéreau sia ancora più presente da quando non c’è più. I film aprono le frontiere con l’aldilà, sono il modo di convocare i morti qui, con noi, farli parlare di loro, farli vivere. È uno dei poteri del cinema».