la Repubblica, 11 luglio 2021
Intervista a Ilya Kaminsky
È un romanzo. No, un poema. Anzi, un libro illustrato. Qualunque definizione se ne dia, è un caso letterario, pluripremiato negli Stati Uniti, diritti venduti in decine di paesi. Arduo definire anche l’autore: Ilya Kaminsky è uno scrittore russo, ebreo, americano? Nato a Odessa, fuggito dall’Urss con la famiglia e immigrato a New York, nel 2019 la Bbc lo ha incluso fra «i dieci artisti che hanno cambiato il mondo». Libro dell’anno secondo il New York Times, pubblicato in Italia da La nave di Teseo, la sua ultima opera Repubblica sorda è una commedia in due atti su censura, apatia politica e tortura, ma anche sui sandwich al pomodoro, la nascita di una figlia, l’inaspettata gioia della vita matrimoniale. «Per fare un uomo», recita uno dei versi, «ci vuole solo qualche minuto». Per ascoltare Kaminsky, che sarà oggi alla Milanesiana, non basterebbe un giorno, come abbiamo scoperto durante una fluviale conversazione online.
Da dove viene l’idea di Repubblica sorda?
«Da lontano. Soltanto a sedici anni ho avuto un apparecchio acustico che mi aiutava a sentire: fino ad allora ero cresciuto in una nazione senza suoni. Da piccolo ho ascoltato la caduta dell’Unione Sovietica con gli occhi.
Ma cosa sarebbe successo se l’intero paese fosse stato sordo come me? Di modo che, quando i poliziotti davano un ordine, nessuno li sentisse? Non vale solo per l’Urss totalitaria: l’ho pensato anche durante le conferenze stampa di Trump. Così ho scritto un libro per immaginare il rumore del silenzio».
Citazione di Sound of silence, la famosa canzone di Simon & Garfunkel?
«I sordi non credono nel silenzio: è un’invenzione degli udenti, un feticcio religioso o filosofico. Ma i poeti sono consapevoli delle limitazioni della parola. Come insegna Kafka, ogni linguaggio è una povera traduzione dell’animo umano. Senza il silenzio tra un suono e l’altro, la musica sarebbe soltanto rumore».
Nel romanzo Cecità, José Saramago descrive un’epidemia che impedisce alla gente di vedere, allegoria dell’incapacità di arrivare alla verità. È un concetto analogo al messaggio del suo libro?
«Ammiro Saramago, ma non mi piace il suo uso della disabilità come metafora negativa. Perché viene sempre percepita come segno di sfortuna? Io voglio cambiare le carte in tavola! Immaginare che l’incapacità di sentire sia un valore aggiunto, una nuova forma di stare insieme. Come sarebbe il mondo governato da non udenti? Dopotutto, i sordi non hanno mai iniziato una guerra. Racconto la sordità come minoranza politica, che sprigiona una forza in più».
Per questo ha illustrato il libro con il linguaggio dei segni?
«Da bambino era il solo che conoscevo. I segni e la lettura labiale: questa era la mia lingua, non il russo o l’ucraino. I gesti hanno una potenza talvolta più forte delle parole».
Noi italiani, ben noti per l’eccesso di gestualità, ce lo auguriamo.
«È una buona cosa che vi sappiate esprimere così. Anni fa alcuni scienziati fecero l’esperimento di chiudere in una stanza persone di lingue diverse. Quando riaprirono la porta, ciascuno stava da solo in un angolo, perché non riusciva a comunicare con gli altri. Allora gli scienziati chiusero nella stanza un gruppo di non udenti di diversa nazionalità: sebbene il linguaggio dei segni sia differente da paese a paese, i sordi provavano lo stesso a comunicare, creando un nuovo linguaggio gestuale».
A proposito di linguaggio, cosa significa scrivere in inglese?
«Per un immigrato c’è una particolare bellezza nell’innamorarsi di una lingua straniera: la stranezza dei suoni, la soggezione di una nuova sintassi. Imparare una lingua ha qualcosa di erotico: il modo non familiare in cui torcere la lingua, l’angolazione della bocca, il movimento delle labbra. D’altro canto, ti senti impotente, perduto, confuso. Poi avviene il miracolo. Dalla bocca escono suoni che non sapevi di possedere. Quando ho cominciato a vivere in America, immergendomi nell’inglese, ho perfino cambiato faccia».
Il suo viaggio verso l’America è iniziato nel giorno della morte di Leonid Breznev, che per molti rappresenta l’inizio della fine dell’Urss. Cosa pensa oggi del suo paese di origine?
«Il mio paese di origine è l’Ucraina, dove oggi ci sono giovani che credono nell’idea di democrazia più dei loro coetanei in Europa e negli Stati Uniti. Le trasformazioni sociali richiedono molto tempo. Spero di vivere abbastanza per vedere la democrazia trionfare in Ucraina e in tutta l’ex-Unione Sovietica».
Com’era crescere a Odessa?
«Difficile, perché eravamo identificati fin dal passaporto come ebrei. In un paese fortemente antisemita come l’Urss voleva dire essere quotidianamente insultati».
Che cosa pensa del suo paese adottivo?
«L’America è un posto sorprendente. Da un lato, una miscela di culture, il luogo più multietnico del globo, gli stessi diritti per tutti. Dall’altro, una terra estremamente violenta, di una violenza che per di più una gran parte dei suoi abitanti tende a ignorare».
Si sente più ucraino, ebreo o americano?
«Appartengo alla razza umana: un’identità meravigliosa e sufficiente. Se fallisco come essere umano, fallisco come poeta».
Ma che cosa prova per la grande tradizione della poesia russa, da Pushkin a Majakovskij?
«Mi ritengo fortunato ad essermi abbeverato a quelle fonti. I più vicini al mio cuore sono Osip Mandelstam, Anna Akhmatova e Marina Tsvetaeva. Naturalmente anche nella poesia inglese abbiamo grandi modernisti, a cominciare da T.S.
Eliot. Ma per quanto brillanti, gli inglesi hanno una misura di freddezza, di distacco, come se parlassero da una torre. In Russia la poesia è più calda, fatta di voci nella folla».
Parlando del suo romanzo più anticonvenzionale, Lo stesso mare, Amos Oz diceva che a un certo punto prosa e poesia dovrebbero fondersi.
«Sono d’accordo, ma è sempre accaduto, nelle opere di Omero e nel Gilgamesh, nei versi di Dante, così come nel Requiem della Akhmatova.
Nella grande letteratura, ogni verso è racconto epico, ogni prosa è poetica».