la Repubblica, 11 luglio 2021
Dagli Stati Uniti alla Cina la politica alla riscossa su Big Tech
«Sono state sei settimane storiche per la diplomazia economica». La segretaria al Tesoro Janet Yellen si riferisce al notevole progresso compiuto fino al G20 di ieri: il progresso verso la global minimum tax, che deve spostare pressione fiscale dal ceto medio alle multinazionali. Ma dietro quell’osservazione si nasconde un cambio di paradigma perfino più sostanziale. Nelle due economie più ricche del pianeta, America e Cina, l’asse delle politiche economiche si sta spostando a sfavore del grande capitale. Malgrado il divorzio strisciante tra le due superpotenze, è in atto una singolare convergenza tra Washington e Pechino nell’inasprire l’antitrust. Alla vigilia del G20 Joe Biden ha varato un maxi-decreto «per restituire competitività all’economia americana», che contiene soprattutto direttive mirate contro i monopoli, quelli di Big Tech e di altri settori dove la concorrenza è stata ingessata da pratiche collusive contro l’interesse dei consumatori. Inoltre ha appena nominato al vertice della Federal Trade Commission (Ftc), che è la più potente agenzia antitrust statunitense, una donna giovanissima (Lisa Khan, 32 anni) ben nota per le sue posizioni da “falco” dell’anti-monopolio.
In simultanea, Xi Jinping prosegue un’offensiva implacabile per ridurre il potere dei “campioni nazionali” del digitale, da Alibaba (l’Amazon cinese) a Didi (l’Uber cinese). Il vento gira contro colossi che negli ultimi decenni avevano goduto di una libertà pressoché totale. Dall’elusione fiscale alla costruzione di piattaforme monopolistiche, tutto ciò che era consentito fino a ieri, lo sarà molto meno in futuro.
Il tema fiscale ha un’importanza cruciale. Biden ha saputo coniugarlo con la sfida sulla “tenuta delle democrazie”. Perché da troppi decenni il peso politico delle multinazionali ha costretto i governi a una competizione malefica: per attirare gli investimenti delle grandi imprese, offrivano sconti fiscali sempre più allettanti. Molti facevano a gara per essere dei “paradisi”. Poiché nel frattempo la spesa pubblica non diminuiva, per finanziarla si è dissanguato il ceto medio. I segnali di disaffezione dalla liberaldemocrazia sono anche collegati a questa crisi fiscale, sintomo di una politica che non risponde alla maggioranza dei cittadini, ma si lascia condizionare dai poteri forti. Per invertire la tendenza occorre un accordo internazionale: fatto.
Le obiezioni contro l’intesa del G20 sono note. I più radicali lamentano che l’aliquota minima del 15% è troppo bassa. Ma ignorano che il punto di partenza è vicino allo zero, per colossi come Amazon e Apple che si erano costruiti il loro paradiso in Irlanda. Perfino all’interno di Paesi dove la tassazione teorica è elevata sconti e deduzioni abbondano, portando le aliquote reali molto più giù. Un problema più serio sarà la vigilanza sull’attuazione. Dopo aver firmato gli accordi, bisogna stare ai patti. Qualche Stato può barare, puntando a lucrare su una rendita di posizione ancora più redditizia se il numero dei paradisi fiscali si assottiglia. Non va sottovalutata la potenza di fuoco dell’Amministrazione fiscale americana, una volta che ha gli strumenti e la legittimità per intervenire come poliziotto globale: ricordiamo quanto è regredito il segreto bancario svizzero dopo la crisi del 2008-2009, in conseguenza delle formidabili multe Usa contro gli istituti di credito elvetici.
L’Europa ha molto da guadagnare dal cambio di paradigma, sia sul fisco che sull’antitrust. Paradossalmente Bruxelles ha avuto un ruolo pionieristico grazie alla debolezza europea nel digitale. La Commissione europea in passato è stata meno condizionata dalle lobby e ha potuto lanciare le sue offensive contro Amazon, Apple, Google, Facebook, Microsoft. (È stata più distratta sulla penetrazione cinese nel 5G, finché non l’ha “svegliata” la pressione americana). Ma l’antitrust europeo deve emendarsi dalla deriva burocratica che lo insidia. La tanto vantata normativa Ue a tutela della privacy dei cittadini, si traduce in una caterva di formulari digitali, che il povero utente non ha il tempo per leggere né la competenza per capire. Alla fine la maggioranza si limita a scrivere “acconsento” per liberarsi dallo tsunami di modulistica.
Anche sul fisco, l’Europa deve vigilare perché il progresso realizzato nei summit globali non sia vanificato nella pratica. C’è ancora una mini- pattuglia di paradisi fiscali (Irlanda, Ungheria ed Estonia sono i più determinati) che possono tentare qualche colpo di coda per sottrarsi alla nuova disciplina. Bruxelles dovrà trovare coesione e strumenti coercitivi contro chi voglia continuare a praticare la pirateria.
Le multinazionali non si arrenderanno facilmente. In qualche isola esotica ci sarà sempre un indirizzo giusto per proteggersi dal fisco. Però un principio importante affermato dal G20 è l’eliminazione della territorialità dell’imposta: non basta avere sede in un paradiso fiscale, per fingere di concentrare lì la base imponibile. Gli Stati dovranno concordare nuovi metodi per tassare dove fatturato e profitti hanno origine, cioè dove sono i consumatori. Siamo all’inizio di un percorso, ma la direzione è giusta.